«Il precetto “conosci te stesso” ha goduto di una fortuna ininterrotta dall’antichità classica all’età moderna, attraversando il medioevo». Così inizia Pierre Courselle il suo monumentale lavoro Conosci te stesso - da Socrate a san Bernardo.
«Conosci te stesso» era scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a Delfi (insieme con l’invito alla moderazione, espresso nel motto: μηδὲν ἄγαν, «nulla di troppo»): in questo modo l’oracolo di Apollo (la Pizia o Pitia; in greco antico: Πυθία, Pythía; era la sacerdotessa di Apollo che dava i responsi nel santuari) rivolgeva all’uomo l’invito a indagare dentro di sé, per scoprire che l’essenza della vita è dentro, non al di fuori di noi.
Socrate, che sulla conoscenza di se stesso costruirà la base del suo pensiero, nel Protagora platonico (343ab), racconta l’origine dell'iscrizione, che risalirebbe alla tradizione dei sette sapienti:
Tra gli antichi vi furono Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e il settimo tra costoro si annoverava Chilone di Sparta: tutti quanti furono ammiratori, appassionati amanti e discepoli dell’educazione spirituale spartana. E che la loro sapenza fosse di tale natura lo si può capire considerando quelle sentenze concise e memorabili, che furono pronunciate da ciascuno, e che, radunatisi insieme, essi offrirono come primizie di sapienza ad Apollo, nel tempio di Delfi, facendo scolpire quelle sentenze che tutti celebrano: Conosci te stesso (γνώθι σαυτόν) e Nulla di troppo (μηδὲν ἄγαν).
Le colonne doriche del Tempio di Apollo a Delfi.
Delle varie tesi esposte quella che mi appare più convincente per interpretare questa antica massima, è quella di Roscher, che ritiene che fosse una prescrizione rituale. Cioè che il suo senso è pratico, e che la massima delfica indica che era conveniente per chi consultava l’oracolo a «guardare in se stesso per capire cosa veramente desiderasse ottenere», ed essere così in grado di formulare la domanda con precisione per poter ottenere una risposta appropriata. È la tesi più semplice.
Altri la vedevano come invito alla prudenza, sottintendendo il pericolo a cui si esponeva, e si espone tuttora, l’uomo che si considera un dio e voleva significare di non paragonarsi a un dio.
Questo significato si delinea meglio se lo si affianca all’altro precetto delfico: “Niente di troppo”, confermando di essere un invito rivolto all’uomo perché riconosca di essere un semplice mortale e non presuma di più, riconoscendo i propri limiti. Conoscere i propri limiti per rimanere all’interno di essi, perché tentare di superarli può portare al caos.
La mia opinione è che il motto greco sembra una presa in giro dei sacerdoti di Delfi, perché se tu vuoi conoscere te stesso pretendi già solo per questo qualcosa di troppo. È un’ironia: chi di noi si conosce per davvero fine nell'ombra del suo inconscio? Quando mai qualcuno ha detto che si conosceva, “io mi conosco!” È un discorso doppio, sempre le parole degli dei greci sono doppie, parlano per enigmi... e tu uomo sei in bilico. Se tu pretendi troppo, se tenti di superare i limiti che ti sono stati destinati, pensavano i greci, sarai punito. Tutto deve stare nel suo limite altrimenti è il peccato contro gli dei, contro il Cosmo da loro ordinato con continue lotte per mantenerne l’equilibrio.
La colpa fondamentale per il greco è voler superare il suo limite, volerlo oltrepassare, volerlo trasgredire.
Conoscere se stessi, per gli antichi greci, vuol dire conoscere i propri limiti e conoscere di essere destinati ad una forma che non si può eccedere. Ogni cosa, dicevano, che ha limiti è nell’illimitato, ma ciò che appare nell’infinito deve essere finito, questa è la tua forma e non la puoi eccedere, Tutta l’arte greca, la statuaria greca e l’architettura greca è dominata da questo principio fondamentale, sullo sfondo dell’infinito devono apparire forme assolutamente definite.
Quella forma che vuole trasgredire se stessa verrà punita e la Necessità la costringerà di nuovo e con dolore nel suo limite. Però il greco avverte che l’uomo ha questo anelito continuo all’oltre e questo è irrefrenabile e questa è la Tragedia, una forma d’arte e di filosofia che gioca tutto su questo contrasto: da una parte la necessità di questa creatura meravigliosa e tremenda che è l’uomo e il bisogno, unico per sua natura, di andare oltre la sua natura, perché restare nella sua natura è insufficiente, amaro, doloroso e dall’altro l’essere costantemente e a forza condotto sempre con dolore nel suo limite. Questa è la tragedia e questo è il destino dell’uomo.
Come vedete il tema è ancora di attualità se non altro perché il rischio qui evidenziato si scontra con la volontà umana di conoscenza e di desiderio di superare i propri limiti, se così non fosse l’uomo non avrebbe progredito. Ma la massima ci ricorda il rischio del caos che potremmo creare e forse già abbiamo iniziato a produrre. Quale sarà il nostro doloroso destino?
Bisogna dire che la filosofia, che allora stava nascendo e che era intesa come risposta alla curiosità di conoscere lo stato delle cose, quindi anche di noi stessi al di là del nostro corpo, dava importanza al gnôthi sautón[1] ed obiettò che era umanamente impossibile eseguire il comando.
Eraclito disse: “interrogai me stesso”, dove il verbo interrogare aveva il significato di indicare la domanda rituale all’oracolo e, infatti, continua “La Sapienza è rivolgersi al proprio “se stesso” che sconfina nel cuore del cosmo, come a un nume che pronunci enigmatici responsi.”
La massima diventa segno rituale e viene elevata in chiave iniziatica.
Si amplia a significato esoterico, incontra la radicale obiezione di essere impossibile.
Infatti in un altro pensiero Eraclito sentenzia: “I confini dell’anima, per quanto tu tenti di percorrerla tutta, non li scoprirai: tanto profonda è la sua natura”.
Ora, la massima delfica non resiste all’obiezione d’essere impossibile, se ricondotta alla sua più semplice funzione di procedura, come ho detto all’inizio. Così intesa, la massima non raccomanda altro che un’auto diagnosi pratica, il chiarimento di ciò che “veramente si desidera ottenere” quando si interroga l’oracolo, e che nella mente dell’interrogante spesso è confuso, o a lui stesso oscuro. E qui entra in gioco la particolarità del desiderio soggettivo, la speranza di sciogliere, consultando l’oracolo, l’ansia di un problema, in senso molto pratico.
Solo con Socrate la filosofia si appropria della massima delfica e ne eleva la portata. Diversamente da Eraclito, Socrate non propone l’interrogazione in termini di interpretazione iniziatica, piuttosto in termini di conoscenza dell’essere. Il primo criterio di ogni interrogazione filosofica è di definire bene il tema. E un’interrogazione intorno all’anima non si tratta con semplicità.
L’interpretazione del gnôthi sautón da parte del Socrate platonico ha la premessa e il punto di partenza nella riflessione dell’esigenza di “conoscere noi stessi” per “conoscere quale cura dobbiamo prenderci di noi”, cioè dichiara la necessità di “scoprire in che consiste il “se stesso””. Con Socrate per la prima volta il pensiero si sofferma sull'autocoscienza, per lui fondamento e condizione suprema di ogni sapienza. Fece proprio il motto “Conosci te stesso”, a voler dire: solo la conoscenza di sé e dei propri limiti rende l'uomo sapiente, oltre a indicargli la via della virtù e il presupposto morale della felicità.
Per Socrate infatti una vita inconsapevole è indegna di essere vissuta.
Una tale autocoscienza, tuttavia, non è insegnabile né trasmissibile a parole, poiché non è il prodotto di una tecnica: ognuno deve trovarla da sé. Il maestro può solo aiutare i discepoli a farla nascere in loro, all'incirca come l'ostetrica aiuta la madre a partorire il bambino: non lo partorisce lei stessa. Questo metodo socratico era noto come maieutica; e l'oggetto a cui mirava era da lui chiamato dáimōn, ovvero il demone interiore, lo spirito guida che alberga in ogni persona.
Con Socrate vennero poste in tal modo le basi di tutta la filosofia successiva, basata sul presupposto che la vera conoscenza non deriva dai sensi, ma nasce dall'uso consapevole della ragione.
Successivamente si distinguerà che “l’uomo è altra cosa dal suo corpo”, dal momento che egli “si serve del proprio corpo” e a lui dunque il corpo appartiene. In definitiva, “né il corpo, né il corpo e l’anima insieme, sono l’uomo”, ma “o l’uomo non è nulla o, se è qualcosa, non è altro che anima”. Ovvero sia, “l’anima è l’uomo”. L’identità essenziale dell’uomo è l’anima. Perciò “conoscere se stessi” vuol dire “conoscere l’anima”.
E’ evidente che qui si aprono le innumerevoli disquisizioni filosofiche sul significato di cos’è l’anima, la mente, il pensiero, la memoria, la volontà e il desiderio di volere, la coscienza.
Non affronto ora tali argomenti.
Lasciamo ora la filosofia per portarci ad un mito, quello di Narciso. I miti sono nati prima della scienza, prima della religione e prima della filosofia, sono un metodo utilizzato dall’uomo nell’antichità per spiegare l’origine delle cose e hanno sostanza esoterica.
Il mito di Narciso ci dice che il giovane sarebbe vissuto fin tanto che non si fosse visto, e la cosa, detta così, banalizza il mito, anzi ne impedisce la comprensione.
Infatti, se si trattasse solo di un vedersi o di un conoscersi, allora perché si realizzasse la profezia e Narciso subito morisse, sarebbe bastato che egli si vedesse in uno specchio: una figura che oggettivamente era la sua immagine.
Invece il racconto di Ovidio, nelle sue Metamorfosi, enfatizza come decisiva la circostanza che il giovane, al primo veder la propria immagine riflessa nell’acqua non sa ciò che vede, ma solo a un certo punto, quando si rende conto del suo autoinganno, esce nel grido: “Questo sono io! Ho sentito, né mi inganna, la mia immagine” e subito deperisce e comincia a morire. La morte di Narciso non è dunque legata al fatto ch’egli attraverso lo specchio vede, conosce, l’immagine che oggettivamente corrisponde alla sua figura reale, ma la morte è legata alla condizione che l’ha soggettivamente ri-conosciuta come la sua, si sia ri-conosciuto nel suo essere, in breve si sia identificato nella sua individuale unicità.
Il che anche nel suo significato originario sembra essere l’interpretazione corretta, dal momento che il latino noscere significa innanzitutto imparare a conoscere, comprendere: quindi il noscere se vuol dire imparare a conoscere sé e perciò arrivare a ri-conoscersi, a comprendere di essere chi si è.
Lo stesso socratico gnôthi sautón non avrebbe alcun significato filosofico, e neppure in verità alcun senso comune, se non volesse dire: impara a conoscerti, e così tendi a comprendere chi sei, ossia qual è l’ essere proprio della tua individualità.
La lezione del mito insegna che l’uomo corre il pericolo mortale, non se si conosce , ma piuttosto se si ri-conosce. Insomma, il pericolo è nella possibilità dell’autoconoscenza e dell’auto-comprensione, in cui culminano la razionalità, la via all’appropriazione del suo essere. Al conseguimento della sua dignità (di ciò per cui la vita è degna di esser vissuta), si perviene al trauma mortale del disinganno e dell’impotenza, addirittura al pericolo di perdersi nel tormento e nel suicidio.
È il terribile aforisma: “la verità sull’uomo è mortale per l’uomo”, il che equivale a dire che la verità non è fatta per l’uomo, ovvero “il destino dell’uomo non è la verità”.
Detto ancor più grossolanamente: l’uomo non può progredire, non può trasformarsi da ignaro in consapevole, il suo esistere resta un dato di fatto, non un principio conoscibile: non un agire ma semplicemente un subire.
Ho citato il mito di Narciso perché è l’opposto del socratico gnôthi sautón.
Il mito ammette solo una trasformazione subìta, e nega quella possibilità tutta umana che invece l’illuminismo razionalistico afferma: cioè la trans-formazione agìta, l’auto-trans-formazione.
L’esame di coscienza è un valido aiuto a comprenderci ed entrare nel mondo della nostra esperienza interiore.
Ora appare la domanda: Cos’è la coscienza? Oppure da dove nasce la coscienza?
Se vogliamo conoscerci per migliorarci è sufficiente che la risposta sia data da una filosofia o una teologia da me scelta con i suoi rimandi etici e morali o possiamo tentare di averne maggiore comprensione con risposte che siano anche scientifiche?
La ricerca della coscienza è uno dei punti fondamentali della nuova scienza e c’è chi afferma che siamo all’inizio della comprensione della coscienza.
La filosofia moderna sembra sfuggire alla possibilità di esprimersi in proposito se non accettando gli argomenti portati dalla neuroscienza.
Ma da qualche articolo scientifico che ho letto, più che contribuire a chiarire l’argomento sembra che lo si renda ancora più confuso.
La ricerca ha trovato aree della corteccia cerebrale attive nelle attività di mente e coscienza, delle quali, entro certi limiti, si conoscono le attività elettro-chimiche, ma non si è ancora capito se e in che misura la correlazione tra eventi mentali e aree cerebrali attive è causale. Si è scoperto, ad esempio, la sincronizzazione delle cellule di reti neurali geneticamente omogenee nei processi della coscienza e tale scoperta è stata fondamentale per capire il funzionamento delle mappe neuronali. È noto il ruolo chiave del tronco encefalico, nella vigilanza, condizione non ancora sufficiente per la coscienza.
La coscienza percepisce se stessa senza potersi capire o spiegare, perché il cervello è nello stesso tempo il soggetto che studia e l’oggetto studiato, questi sono limiti che gli stessi scienziati sembrano ammettere.
Un danno neuronale minimo ed ecco che il cervello umano va in tilt e viene meno il controllo della memoria, della visione, dell’apprendimento, del pensiero, del comportamento volontario. Un’ombra minuscola in una TAC ed ecco che non ci si riconosce oppure non si riesce a ricordare chi si è e dove ci si trova. Quel meraviglioso meccanismo fatto di neuroni si rivela un altrettanto fragile sistema.
Sappiamo che, ad esempio e in linea generale, la memoria dipende interamente dal corretto funzionamento neurofisiologico, e che, per quanto se ne sa, si può agire sulle cellule solo attraverso il consumo di energia. Quindi, forse, la coscienza non può lasciare tracce e ne mai le lascerà.
Credo che le neuroscienze possano e potranno dare il meglio di sé, comprendere i meccanismi che stanno alla base delle emozioni, della felicità, dell’eccitazione e di altri stati d’animo, ma i nostri stati mentali e le loro origini resteranno inaccessibili e credo anche che il mondo interiore di ciascuno di noi sia accessibile in parte solo a noi stessi.
Se non si può rispondere ancora, e forse mai, alle domande iniziali su cos’è e da dove nasce la coscienza, possiamo almeno rispondere alla domanda: che funzione ha la coscienza?
E qui possiamo ritenere che non abbia la sola funzione di sorvegliare i nostri stati interiori, ma includa anche il mondo circostante con cui siamo in relazione. Forse il problema non lo si deve affrontare solo con l’idea che la coscienza sia una manifestazione unicamente fisica, corporea, del nostro cervello, ma che la coscienza riguardi l’interazione col mondo circostante.
Essere consapevole o meno dei meccanismi neurologici che stanno dietro al mio sorriso, può essermi utile, e maggiormente utile al mio medico qualora non riuscissi più a sorridere, ma ciò che mi è indispensabile è l’essere consapevole del mondo in cui vivo e sono integrato, sul quale decido di agire e poi quali saranno le mie stesse azioni, per essere responsabile, padrone di queste mie azioni e responsabile delle loro conseguenze se le decisioni prese saranno state frettolose, trascurate o sbagliate.
Ritengo quindi tuttora valida l’esortazione insita nel motto “conosci te stesso”.
L’ho fatta mia già da anni, in un percorso continuo e faticoso.
Voglio ora riportare un aforisma attribuito a Pitagora che è in tema, è un insegnamento che esprime il suo peculiare modo di comunicare una verità:
“Cercare la conoscenza è correre verso te stesso; la tua ombra corre con te.”
Una possibile spiegazione può essere: quando corri nel sole la tua ombra corre con te, se il tuo viso è volto verso il sole, la tua ombra è alle tue spalle e ti segue. Ma se tu guardi verso la tua ombra, il sole è alle tue spalle e tu segui l'ombra, l'ombra corre di fronte a te. La tua ombra è il tuo corpo e i suoi bisogni e i suoi desideri.
Questo rivelò Pitagora. E io sento che dobbiamo vagare un'intera vita per comprendere pienamente il significato di questo insegnamento. Il corpo con i suoi bisogni, che possiamo arrivare a comprendere possono essere pochi quelli essenziali, ma anche con i suoi desideri, purtroppo e molto spesso falsi. Serviamo ventiquattro ore al giorno il corpo correndo dietro all'ombra e forse solo pochi minuti li dedichiamo allo spirito, volgendoci al sole.
Ho adottato da anni un metodo utile, molto pratico per tentare di conoscermi. Si tratta di un antichissimo sapere esoterico, che ha origini non meglio definite, qualcuno parla di scuola sufi, altri di mistici orientali, forse indiani. In ogni caso era un metodo trasmesso oralmente all’interno del proprio gruppo. Questo sapere evidentemente non è stato inventato da qualcuno, ma intuito e compreso nel corso dei secoli da esploratori dell’animo umano e della spiritualità. Agli inizi degli anni settanta del secolo scorso è stato codificato.
Si tratta dell’Enneagramma: “Conoscere se stessi per cambiare se stessi”.
Invito chi di voi lo conosce a confrontarsi con me sulla sua utilità. Se non lo conoscete vi sollecito ad approfondire l’argomento.
Comunque, per suscitare in voi interesse, vi dico che la novità che propone rispetto all’antico gnôthi sautón sono delle indicazioni pratiche, che trasformano questo motto imperativo in processo evolutivo: la conoscenza di sé che può divenire un presupposto per un’evoluzione personale, che poi è quanto ci prefiggiamo di fare come iniziati.
Anche la psicoanalisi e tutte le varie forme di psicoterapia fanno altrettanto, ma l’enneagramma offre la possibilità di conoscersi per un’evoluzione anche di tipo spirituale oltre che psicologica. Non è una panacea, è uno dei tanti modi per far cadere alcune maschere attraverso un processo per conoscere la nostra personalità attraverso delle differenziazioni tipologiche e poterla riconoscere in una tipologia prevalente, fare i primi tentativi, fare raffronti, verifiche, confrontarsi sui nostri comportamenti.
Io l’ho trovato efficace e posso portarvi testimonianze di altri che lo applicano in modo adeguato.
Resta chiaro che la persona è un tutt’uno senza compartimenti stagni e le distinzioni hanno senso solo in vista di una strategia d’intervento che migliora le nostre capacità di comprensione e di azione, per meglio raggiungere il benessere reale e completo della persona.
Il tutto è da intendere come ulteriore risorsa messa a disposizione, per riconoscere le nostre trappole o meccanismi di difesa adottati nei primi anni di vita, ed efficaci per allora, ma che poi ci trasciniamo nel tempo e che divengono delle limitazioni e freni funzionali.
Insomma, è valido come metodo perché aiuta a cambiare il modo di pensare e di comportarsi in vista di un miglior equilibrio e di una buona armonia psico-fisica.
Ritengo che sia importante analizzare le cause di un determinato comportamento e come si è sviluppato in senso disarmonico, ma il metodo non consiste in questo. Senza pervenire a giudizi morali vuole aiutarci a rispondere alle domande: “Perché ho questi determinati atteggiamenti?” e “Se io sono ciò che sto diventando, come e in che direzione sto camminando?” “Se non so come e perché finora mi sono evoluto fino ad avere questi miei attuali atteggiamenti, come continuerà la mia evoluzione con una maggiore conoscenza di me?”
Di certo ho potuto riscontrare su me stesso e sui fratelli che l’hanno praticato col coraggio di essere onesti con se stessi delle ottime opportunità preventive di sostegno.
In conclusione, il conoscere se stessi è una pratica viva, lunga, impegnativa, rischiosa e, se fatta senza auto-inganno, è concreta, utile, fortificante la nostra volontà.
Se superiamo l’oziosa contemplazione di noi stessi, ritenendoci perfetti e senza volerci punire per quel che potremmo trovare di spiacevole in noi, ma col proposito di reagire, nel conoscersi nascerà spontaneo il desiderio di trasformazione.
Avremo innanzi a noi la strada tracciata, che se anche non ci consentirà di conoscerci del tutto, che sembra essere un proposito impossibile, ci permetterà, passo passo, di migliorarci e ci permetterà di prendere consapevolezza che nella nostra forma qualcosa di malfatto possiamo toglierci e qualcosa di pregevole possiamo aggiungere.
Questo è ciò che ci si chiede.
Ho detto.
F.M.A. Daniele
[1] Γνῶθι σεαυτόν Gnōthi seauton, "Conosci te stesso". Precetto iscritto all’entrata del tempio di Apollo a Delfi. "Conosci te stesso" è la seconda delle tre massime di saggezza apollinee, oltre a "εἶ" "ei", "tu sei" e "μηδὲν ἄγαν" "mēdèn ágān", "niente di troppo". La frase è attribuita al saggio Chilone e ad altre quattro persone: Chilone di Sparta, Talete di Mileto, Pitagora e Solone d’Atene. Socrate ricava da questa massima il principio della consapevolezza di sé, una precondizione della conoscenza filosofica e della saggezza. Γένοιο οἷος εἷ Genoio, hoios ei, "Diventa ciò che sei!”. Ammonimento del poeta Pindaro, accanto a "Conosci te stesso!" una delle più famose iscrizioni di Delfi. Così si legano lo sviluppo della personalità con il riconoscimento di sé: entrambe le frasi, combinate, danno: "Riconosci cosa sei nel cuore del tuo essere, poi cerca di diventarlo." La frase era diretta da Pindaro a Ierone I, tiranno di Siracusa e vincitore ai Giochi Pitici a Delfi. Μηδὲν ἄγαν Mēden agān, "Nulla di troppo" Terza incisione del tempio di Apollo a Delfi, fa parte delle massime apollinee assieme a εἶ, "Tu sei" e Γνῶθι σεαυτόν, "Conosci te stesso".
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