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Liberi Muratori

bresciani - M

MAFFEI Serafino

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Serafino Maffei non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

MAILLOT Luigi

(?)

Fratello affiliato della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 62).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Serafino Maffei non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MAINARDI Antonio

(?)

Fratello affiliato della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 62).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Antonio Mainardi non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MALACARNE Claro-Giuseppe (P. Guerrini lo chiama errando Carlo)

(1768 - 1827) Controllare l’anno di nascita: 1768 o 1777 ?

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58 e 63).

Segretario aggiunto della Loggia nel 1809.

Naturalista; docente di Storia Naturale nel Liceo di Brescia. Socio dell’I.R. Istit. Lomb. di Sc. e Lett. (1828?); -

Nasce nel 1768 a Acqui, risiede a Brescia, poi a Milano.

Già professore di storia naturale e chimica al Liceo di Brescia, poi Segretario del Consiglio delle Miniere a Milano (Luzio p. 340).

Ha 53 anni nel 1831 (secondo il rapporto Torresani edito dal Luzio nell’Arch. stor. lomb.,1917) ed è citato nel Catalogo degli Associati, Governo della Repubblica italiana [napoleonica], Brescia (Benedetto Varchi, Storia Fiorentina, p. 268) con i FFØž Anelli Angelo, Bettoni Nicolò, Bonvicini Giovanni, Calini Beniamino, Malacarne Claro Giuseppe e Martinengo Colleoni Vincenzo).

Socio attivo dall’istituzione dell’Accademia (1801), poi corrispondente dal 1812 (16-Feb). Note: cfr. l’Elenco generale dei Soci, in appendice a: G. Fenaroli, Primo secolo dell’Ateneo di Brescia, 1802-1902 (Brescia, 1902). Per una bibliografia bresciana cfr. F. Glissenti e F. Cicogna (a cura di) Indice [dei Commentari dell’Ateneo] 1808-1907 (Brescia 1908: 113). Voce in: A. Fappani, Enciclopedia Bresciana (Vol. VIII, Brescia 1991). Riportato in R. Navarrini, L’Archivio Storico dell’Ateneo di Brescia (Suppl. «Comm. Ateneo di Brescia» 1996). (*) In: A. Fappani 1991, riportato come Carlo invece di Claro.

Passò all’OrØž Eterno a Milano nel 1827.

 

 

MALFATTI Domenico

(? - 1798)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Trentino (Vedi Antonio Zieger, I Massoni del trentino).

Al 1797 risale infine l’epigrafe funeraria del conte Domenico Malfatti.

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Domenico Malfatti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

Passò all'Or.: Eterno a Trento nel 1798.

 

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MALFATTI Girolamo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Trentino. (Vedi Antonio Zieger, I Massoni del trentino).

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Girolamo Malfatti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

MALORIA Filippo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Filippo Maloria non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

MARCHETTI Giuseppe

(1770 - 1830)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Nacque a Toscolano nel 1770.

Il FØž Giuseppe fu scrittore e poeta; pubblicò vari sonetti (Brescia Bettoni e C. 1826) e una raccolta di poesie di vario argomento. (Donato Fossati, Benacun – Storia di Toscolano, cap. XX, Ad memoriam, Ateneo di Salò, 2001, p. 175).

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Giuseppe Marchetti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

Passò all’OrØž Eterno nel 1830 all’età di 60 anni.

 

 

MARCHETTI Luigi

(1868 – 1933)

Fratello fondatore della Regia Loggia Arnaldo all’OrØž di Brescia di RSAA (1863).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 119).

Nacque a Cecina di Toscolano nel 1868.

Fu Medico Chirurgo.

Il FØž Dott. Luigi Marchetti fu Francesco era di antica famiglia del luogo, che diede sacerdoti e notai e poi decaduta.

Fece il contadino col padre fino quasi ai vent’anni: feritosi di falcetto a un piede, dovette stare in cura per parecchi mesi, durante i quali, rintanato nel solaio di casa che conservava ancora molti vecchi libri, prese amore allo studio, e non volle più coltivare la terra, nonostante le rampogne, i castighi e la collera dei padre. Dopo tre anni conseguì la licenza liceale e si inscrisse all’Università di Pavia, dopo aver vinto il concorso per il Collegio Ghisleri di Pavia, per il posto gratuito [borsosta], che conservò per merito nei corsi di studio, fino alla laurea in medicina. Fu addetto all’Istituto Dufour di Milano, assistente del celebre prof. Venanzio: Esercitò poila libera professione e si fece largo tra i colleghi, attraendo una numerosa clientela (Donato Fossati, Benacun – Storia di Toscolano, cap. XX, Ad memoriam, Ateneo di Salò, 2001, p. 175).

Giudicato dal Prefetto di Brescia uomo che “all’aspetto fiero e concentrato si appalesa per individuo inclinato alle cospirazioni”.

Passò all’OrØž Eterno nel 1933 all’età di 65 anni.

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MARINI Paolo, sacerdote

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58 e 63).

Di Gottolengo. Prete. Preparat. Elemosiniere onorario della Loggia nel 1809.

Professore giubilato di filosofia, fu massone e giacobino e focoso repubblicano nel ‘97.

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Paolo Marini non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

Durante il periodo napoleonico vi furono dei conflitti fra la potestà ecclesiastica e quella civile, anche quando Ministro del Culto era un prete, come l’Abate Giudici. Un caso, che emerge dal documento seguente è quello del Professor G. Battista Marini (omonimo del nostro FØž e sempre di Gottolengo), giansenista, allievo di Tamburini e Zola, sfegatato corifeo dei principii della democrazia giacobina e del giuseppinismo austriaco. Egli presentava direttamente al Governo di Milano la seguente supplica : "Alla R. Imperiale Delegazione. Brescia il dì 13 febbraio 1818. Il sottoscritto Prete Giò Battista Marini di Gottolengo dell’età d’anni sessantotto, dopo avere fatto il corso completo di Filosofia in Brescia e quello di Teologia nell’Università di Bologna, de' quali studi diede pubblici saggi, fu laureato nella Università stessa in Sacra Teologia. Dopo conseguito il grado accademico fu prescelto ad insegnare le scienze sacre nel pubblico Ginnasio di Brescia, nel quale impiego durò per anni cinque circa. Invitato di poi a Roma, continuò per ben quattro anni a prestare nel collegio Irlandese l’opera sua per l’nsegnamento della Filosofia e Teologia. Trasferito da Roma a Pavia il Collegio Germanico-Ungarico, egli pure lo seguì e fu nel medesimo tempo impiegato per due anni in qualità di Vice-Rettore. Restituito in seno alla sua Patria si occupò mai sempre della istruzione privata di molti allievi, e nella pubblica ancora nelle scuole pubbliche di Asola per un triennio. Oltre tali servigi scolastici, di cui conserva i documenti, che presenterà ad ogni richiesta, egli s’impiegò per undici anni in Gottolengo per servizio della Chiesa in qualità ora di Catechista ed ora supplendo alle Funzioni del suo Parroco alla spiegazione del Vangelo. In vista di tali servigi resi allo Stato ed alla Chiesa egli si lusinga di avere acquistato un qualche titolo alla nomina del canonicato vacante in questa Cattedrale giusta il tenore delle Sovrane disposizioni. Impedito finora da malattia per presentare la sua domanda in tempo, prega questa R. I. Delegazione a volersi compiacere di farla ora presente al R. I. Governo, che della grazia ecc. Gio. Battista Marini”.

Il Vescovo Nava, nel comunicare la lista dei concorrenti al Governo, scriveva: «Il Marini è quel medesimo di cui i certificati non furono ammessi nel 1810 ... Per essersi egli immischiato in affari secolari nelle vicende della Rivoluzione non gode affatto della comune opinione, e l’età sua settuagenaria non parmi atta alle incombenze canonicali, massime nella circostanza che il Capitolo è attualmente composto di soggetti in gran parte o per età impotenti o per dispensa esenti dal servizio».

Il Marini non potè quindi ottenere il desiderato posto di canonico e morì a Gottolengo sua patria come semplice sacerdote. (Brixia sacra, Memorie storiche della diocesi di Brescia, Vol. XXVII, Fasc. II, p.30).

Il FØž Paolo Marini era ancora vivente, di anni 80, intorno al 1831 (secondo il rapporto Torresani edito dal Luzio nell’Arch. stor. lomb.,1917). Viveva isolato a Gottolengo, sua patria, ove morì dopo il ‘30 (o ‘31).

 

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MAROCHETTI (?)

(?)

Fratello affiliato della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 62).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Marocchetti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

MARONCELLI Pietro (Piero)

(1795 – 1846)

Affiliato alla Reale Loggia Amalia Augusta all’Oriente di Brescia.

Colonna d’Armonia della Loggia.

Rilevo che Pietro Maroncelli, l’amico diletto di Silvio Pellico, fu a Brescia presentato al tipografo Nicolò Bettoni, che era pure massone, da Iacopo Pederzoli di Gargnano, Venerabile della Loggia bresciana e amico del padre di Maroncelli” (A. Luzio, II processo Pellico - Maroncelli secondo gli atti ufficiali segreti, Milano, Cogliati, 1903).

Nacque a Forlì il 21 settembre 1795.

È stato un patriotamusicista e scrittore italiano, Massone e Carbonaro.

Figlio di agiati mercanti, Antonio Maroncelli e Maria Iraldi Bonet (o Bonnet), che, accortisi della sua grande disposizione per la musica lo avviarono agli studi, prima a Forlì, poi, probabilmente sul finire del 1809, al conservatorio di Napoli, il più celebre d’allora dove ebbe come maestri Paisiello e Zingarelli e come condiscepoli MercadanteNicola Antonio ManfroceBellini e Lablache.

Trascorse in collegio «tre anni, i quali – avrebbe ricostruito a beneficio della polizia asburgica nell’interrogatorio del 7 ott. 1820 – io credetti sufficienti ad istruirmi nel contrapunto. In questo momento, che fu dal 1810 fino al 1813 la camera dei grandi, alla quale io pure appartenni, soleva per costume essere ricevuta nella Società Massonica con intelligenza de’ superiori del Collegio, e del Ministro Zurlo, ad oggetto di formare la musica che poteva occorrere nelle feste massoniche» (Luzio, pp. 355 s.).

Anche Roberto Balzani (in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 70, 2008) cita quindi interpretando che: “Il FØž Maroncelli, quindi, fu iniziato alla massoneria (e in particolare all’«unione» detta «Colonna Armonica») in epoca murattiana, quando essa costituiva una delle forme di sociabilità predilette dal notabilato d’impronta napoleonica”.

E Wikipedia, l’enciclopedia libera (ad vocem), probabilmente riprendendo dalla medesma fonte precedente, recita: “Affiliato alla loggia massonica "Colonna Armonica", ne venne espulso nel 1813 e due anni dopo aderì alla carboneria, venendone iniziato insieme al fratello Francesco” .

“Colonna Armonica” o “Colonna dell’Armonia” è definito l’ufficiale di Loggia che è responsabile delle musiche durante i lavori ed è verosimile che nella regia Loggia Amalia Augusta l’incarico potesse essere demandato al FØž Piero, in quanto musicista; non è altrettanto verosimile come riportato da wikypedia e interpretato dal Balzani che “Colonna Armonica” fosse il nome di una Loggia massonica di mestiere.

Da notare che in una deposizione di Maroncelli dinanzi all’inquisizione di Venezia nel 1820, si legge che nella Massoneria, sotto il Regno d’Italia, “erano ammessi in blocco persino i convittori de’ collegi”, a significare che la Massoneria d’epoca napoleonica era in sostanza un’associazione ufficialmente riconosciuta dal governo e per la maggior parte dei “bussanti” la “via obbligata” per aspirare ad una carica pubblica.

Il FØž Piero Maroncelli è noto per essere stato imprigionato allo Spielberg con Silvio Pellico. Arrestato il 6 ottobre del 1820, processato in quanto carbonaro, condannato alla pena di morte il 2 febbraio 1822, pena commutata in vent’anni di carcere e imprigionato allo Spielberg (Enrico Foschi, La massoneria nella storia politica d’Italia: dalle origini al primo governo a guida Massonica ed alla politica della Loggia Universo, Gangemi, 1999 -  pag. 457).

Dopo la morte del F.: Gioacchino Murat, fucilato il 13 ottobre 1815 a Pizzo in Calabria, Piero Maroncelli tornò a Forlì e andò a perfezionarsi in composizione a Bologna.

Qui conobbe la musicista e poetessa Cornelia Martinetti, ostile agli Austriaci e ospitale ai patrioti, che frequentò per circa due anni; in questo periodo Maroncelli era in corrispondenza anche con Sante Agelli.

Richiamato dal padre a Forlì, Maroncelli scrisse testo e melodia di un inno sacro, l’Inno a san Giacomo, che venne denunciato per «ribellione ed empietà» non tanto per le parole contenute, ma per il sospetto della polizia che Maroncelli fosse un carbonaro.

Fu così rinchiuso nella fortezza di Forlì nel 1819 e da lì trasferito a Roma a Castel Sant’Angelo.

In questo primo periodo di prigionia, ancora forte d’animo, si lasciò tormentare senza rivelare i nomi dei suoi complici e senza ritrattare i suoi principi liberali.

Rilasciato dopo alcuni mesi, “per intercessione di un cardinale e di Teresa Chiaramonti, nipote del papa Pio VII e sposa del conte forlivese Antonio Gaddi” (Flavia Bugani, Piero Maroncelli, Comune di Forlì 1995, p. 4.), fu ospite a Pavia del fratello Francesco, medico e patriota anch’esso.

Trasferitosi a Milano, vi si mantenne dando lezioni di musica e lavorando per lo stabilimento musicale Ricordi; scrisse una biografia di Arcangelo Corelli; successivamente, dal novembre 1819 al marzo 1820, si impegnò prima come traduttore presso l’editore FØž Niccolò Bettoni (vedi) e poi come revisore di bozze per la stampa delle opere di Antonio Marchisio alla tipografia Battelli.

Scoppiata la rivoluzione di Napoli che esaltò gli Italiani, Maroncelli si mise in contatto con i più influenti liberali lombardi per propagandare la creazione di una federazione di tutti gli Stati italiani.

Maroncelli incontrò Silvio Pellico in casa Marchionni e ivi nacque la loro amicizia.

Pellico fu persuaso e convinto dall’amico a iscriversi alla carboneria di cui non era ancora membro; perciò quando Maroncelli venne arrestato il 6 ottobre 1820 fu compromesso anch’egli perché il compagno commise la leggerezza di conservare carte rivelatrici. Con loro vennero scoperti molti altri, ma Pellico non serbò rancore nei confronti dell’affiliato nemmeno per le rivelazioni che fece in lunghi interrogatori prima a Milano e poi a Venezia dove i due erano stati trasferiti.

Con sentenza del 21 febbraio 1822, avvenuta in pubblico su un patibolo in mezzo alla piazzetta di San Marco di faccia al palazzo ducale, Maroncelli fu condannato a morte ma l’imperatore (probabilmente grazie alle rivelazioni fatte) commutò la pena in 20 anni di carcere duro per lui e in 15 per Silvio Pellico nella fortezza dello Spielberg in Moravia dove giunsero il 10 aprile dello stesso anno.

Dopo una gravissima malattia Silvio Pellico ottenne di essere ricongiunto, nel 1823, a Maroncelli, al quale venne diagnosticato un tumore al ginocchio sinistro che non lasciava altra scelta che l’amputazione dell’arto.

Altre malattie lo assalirono nell’umida cella, finché giunse la grazia per entrambi, il 1º agosto 1830, dopo un carcere duro di 10 anni. A Mantova il povero mutilato fu separato da Silvio e ricondotto a Forlì.

Ma negli Stati pontifici per un liberale condannato dall’Austria non spirava buon vento, e dopo alcune settimane gli venne impartito l’ordine di lasciare la famiglia e il Paese.

Riparò quindi in Francia dove il governo di Luigi Filippo e la cordialità dei parigini lo accolsero amichevolmente. Ivi si ridestarono le sue speranze per l’indipendenza dell’Italia, quando seppe della sollevazione delle Romagne, dominio dello Stato della Chiesa, delle minacce d’intervento da parte degli Austriaci e dell’occupazione francese di Ancona che ne era stata la conseguenza.

Gli parve logico che da ciò dovesse nascere l’abolizione del regime arbitrario negli Stati romani, ma ben presto si convinse non solo della inverosimiglianza delle riforme, ma anche della poca fiducia da riporre nelle promesse dei liberali francesi.

Pensò quindi di trasferirsi in America, dopo 3 anni di soggiorno a Parigi.

Qui aveva pubblicato le Addizioni alle Mie Prigioni, delle note in aggiunta alle Mie Prigioni scritte da Silvio Pellico, e aveva sposato la cantante Amalia Schneider, che gli fu compagna amorosa e devota.

Nel 1833 s’imbarcò per gli Stati Uniti al seguito della compagnia d’opera di Don Vincenzo Riva Finoli.

Visse stentatamente a New York dando lezioni di musica e d’italiano, aderendo negli ultimi anni della sua vita al fourierismo. Nel 1833 curò la traduzione francese delle Mie prigioni aggiungendo alle stesse delle Addizioni che furono criticate dal Pellico.

Nella città americana ebbe modo di fare amicizia con Lorenzo Da Pontelibrettista, poeta e drammaturgo di origine veneta, trasferito negli Stati Uniti.

Soffrì fino all’ultimo per la ferita mai rimarginata causata dall’amputazione e per sopraggiunte turbe mentali che minarono gravemente le sue facoltà intellettuali.

Passò all’OrØž Eterno a New York 1 agosto 1846 all’età di 50 anni colpito più tardi dalla cecità e con segni di squilibrio. Ebbe il conforto di amici come Edgar Allan Poe. La sua biblioteca era considerata la più ricca di New York: alla sua morte andò dispersa. Nel 1886 i suoi resti mortali furono riportati a Forlì e, dopo solenni celebrazioni, il patriota fu tumulato nel Pantheon del Cimitero Monumentale cittadino.

 

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MARTINENGO COLLEONI Giovanni Estore V (o Gian Estore o Ettore)

(1763 – 1832)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta e membro della Imperiale Loggia Carolina dell’Oriente di Milano.

Affiliato al R.S.A.A. col grado di Sovrano Principe Rosa Croce di Heredon e Cavaliere del Pellicano e dell’Aquila nera.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 52 e Antonio Fappani, Enciclopedia Bresciana, ad nomen).

Nacque a Brescia nel 1763 (o 1761).

Conte, Generale di Brigata, diplomatico e Ministro della Repubblica Cisalpina, poi Senatore del regno italico nel 1809 a 46 anni, e Ciambellano imperiale (L. F. Fè d’Ostiani, Delle illustri famiglie bresciane, p. 58-60 e più ampiamente Bonomi, Il castello di Cavernago e i conti Martinengo Colleoni, Bergamo, Bolis, 1884).

Sia il padre Venceslao Martinengo Coleoni (1714 - 1779), che il figlio Venceslao II Martinengo Colleoni (1810–1885, vedi) furono entrambi FFØž Liberi Muratori.

Figura affascinante anche per la sua attività di massone, documentata da due diplomi: l’uno della Reale Loggia Amalia Augusta dell’Oriente di Brescia che lo nomima Fratello onorario, l’altro del 1807 della Imperiale Loggia Carolina dell’Oriente di Milano che lo nomima Principe Rosa Croce di Heredon, Cavaliere del Pellicano e dell’Aquila nera (vedi Archivio di Stato di Bergamo, Carte Martinengo Colleoni, doc. 157 e 159).

Figlio di Venceslao I e di Drusilla Sagramoso (di Giuseppe), di Verona. Studiò a Bologna nel Collegio S. Francesco Saverio dei Barnabiti e poi a Roma nel Collegio Nazareno dei Padri delle Scuole Pie. A Roma conobbe, tra gli altri, il bergamasco mons. Francesco Carrara, che diverrà nel 1785 cardinale. Oltre che agli studi delle lettere e delle armi si appassionò anche all’architettura militare, nella quale acquistò larga notorietà.

Nel dicembre 1785 fu attratto dalla fama che si diffondeva anche in Italia intorno a re Federico di Prussia e, dopo aver declinato l’invito di entrare nell’esercito austriaco, ottenne per intervento della madre e dello zio di arruolarsi nell’esercito prussiano in un reggimento di ussari con grado rilevante. Fu prediletto dal Principe di Brumswick e il gen. Wolchey nel 1786 lo definiva «onore della patria».

Nel 1787, a 24 anni, fu nominato tenente di cavalleria e prese parte alla campagna d’Olanda, in cui, in settembre, restò ferito ad una coscia, sotto Utrecht.

Nel 1788 ebbe la promozione a capitano e si applicò a studi di tecnica e di architettura militare, dei quali presentò saggi apprezzati dal re di Prussia, disegni di alcune fortificazioni.

Nel 1789, scoppiata la Rivoluzione francese, ottenne il congedo e tornò a Brescia, anche per occuparsi dopo la morte dello zio degli affari familiari, partecipando alla vita mondana e culturale.

Fu tra l’altro uno dei frequentatori del noto salotto della contessa Bianca Capece della Somaglia Uggeri.

Nel 1796 manifestò simpatia per Napoleone e l’esercito napoleonico e il 18 marzo 1797 si schierò in favore della Rivoluzione giacobina. Il provveditore straordinario veneto, Francesco Battaggia che gli aveva affidato la cassa “come ad uomo di cuore e di onore e che riteneva detestasse le novità” con l'impegno di passare il denaro a Venezia, si sentì da lui rispondere che essi appartenevano alla Nazione Bresciana. Tuttavia il Martinengo con altri riuscirà a far fuggire di notte il Battaggia, rimasto prigioniero dei rivoluzionari.

Il 24 marzo il FØž Martinengo veniva chiamato dal Governo Provvisorio a far parte del Comitato militare, per conto del quale si impegnò ad organizzare le milizie cittadine, di cui presentò, l’8 aprile 1797, con altri un piano articolato esposto in un manifesto.

Intervenne attivamente nei dibattiti per approntare le riforme.

Fu tra i primi a piantare a Cavernago l’albero della libertà con una festa campestre sontuosissima, senza perdere però nessuno dei suoi possedimenti.

Carico di odio contro gli Schiavoni, fedeli soldati della Repubblica, attaccò poi quest’ultima con un libello sull’Istria e la Dalmazia scritto sotto lo pseudonimo “Leoncio” contro “l'oligarchia” di Venezia, negando che la libertà potesse avere il suo seggio nella “puzzolente Veneta Laguna”. Del resto fin dalla caduta di Venezia egli era stato tra quelli che avevano dichiarato di desiderare l’unione con tutti gli italiani: «ma giammai coi presenti veneziani».

Il 22 aprile 1792 il comitato militare proponeva con mozione al Governo Provvisorio la sua nomina di capitano “come il più idoneo pei suoi talenti militari”.

Nel giugno 1797 fu tra coloro che a Milano serrarono dappresso Napoleone perché proclamasse la Repubblica Cisalpina.

Nel luglio 1797 venne inviato dal Governo Provvisorio in Valcamonica, con due compagnie del battaglione dei cacciatori e venti ussari, per reprimere sedizioni e rivolte.

Nel settembre 1797 venne nominato ispettore generale ed organizzatore delle milizia.

Il 28 novembre 1797 a 34 anni sposò Camilla Provaglio (1715 – 1779), sorella di quella Marzia che attrasse le attenzioni e i frivoli lampi del FØž Ugo Foscolo; il matrimonio fu celebrato con sfarzo, era la vigilia della Rivoluzione e la sposa aveva 17 anni. Ne ebbe i figli Drusilla, Venceslao, Marianna, e un bambino nato precocemente il 13 dicembre 1813, vissuto poche ore e in seguito a questo parto prematuro e alle vicende politico-militari che la mettevano in ansietà sulle sorti del marito, la giovane contessa morirà in Brescia il 22 gennaio 1814. La sua salma fu esposta per molti giorni in Broletto e sepolta il 13 febbraio in S. Alessandro, nella tomba gentilizia.

Gian Estore fu poi tra i seniori del Dipartimento del Mella alla Repubblica Cisalpina e poi mandato dal Direttorio come ministro plenipotenziario alla Corte di Napoli, dove rimase dal luglio 1798 al marzo del 1799. Prima di arrivare a Napoli si fermò a Roma dove ebbe modo di rilevare in un’interessante relazione la situazione di grande interesse e il carteggio diplomatico da lui inviato su molti avvenimenti dalla fuga del Borbone, la spedizione di Bonaparte in Egitto, le vittorie di Nelson, i fatti di Malta e di Costantinopoli rivelando una certa imparzialità di giudizio.

A Napoli esercitò grande fascino per lo sfarzo, la prestanza fisica e la squisitezza del tatto. Ebbe rapporti stretti con altri diplomatici e uomini di governo (fra i quali il Marchese Galli, ministro degli Esteri del Regno delle Due Sicilie, e il Biraghi, ministro degli Esteri della Repubblica Cisalpina) oltre che con gli esponenti del Direttorio Esecutivo della Repubblica Cisalpina.

Il 15 febbraio 1799 si dimise e tornò a Brescia. Le vittorie degli Austro-Russi nel 1799 obbligarono il conte a ritornare a Milano, e poi a Parigi assieme a molti altri italiani.

Nel marzo 1800 tornò a Brescia e fu arrestato con i fratelli Vincenzo e Giuseppe dagli Austriaci nel suo palazzo a S. Alessandro. Tradotto a Milano venne poco dopo liberato.

Dopo la vittoria napoleonica di Marengo venne di nuovo incaricato con altri di riagganciare a Brescia la guardia civica di cui divenne comandante. Fu poi dai francesi nominato capitano dei granatieri a cavallo.

L’8 agosto 1800 venne nominato dallo Stato Maggiore capitano della Compagnia dei Granatieri della Guardia Nazionale Bresciana, con ampi riconoscimenti per i servizi prestati. In tale ruolo fece parte del Corpo d’armata del Generale Brune. Lodato il progetto di organizzazione di un Corpo di cavalleria nazionale, che fu accettato dal Governo; lo stesso Martinengo venne incaricato della organizzazione. Poco dopo il Commissario governativo della Cisalpina e l’Amministrazione del Dipartimento lo elessero capo di Brigata e comandante della Milizia Nazionale.

Nel luglio 1801 ebbe l’incarico di commissario straordinario nel Basso Po (Ferrara), lasciando il comando della Guardia Civica a Francesco Gambara.

Il 16 novembre vene nominato Generale di Brigata e membro del Corpo Legislativo ai Comizi di Lione per i notabili del Mella, facendo poi parte fino al 1808 del Collegio dei Possidenti. A Parigi fu accolto con molto favore da Bonaparte, e all’Assemblea Legislativa presentò due memoriali, uno sulla organizzazione dell’armata italiana, l’altro sul modo di rendersi indipendenti dall’influenza francese. Poco dopo venne nominato membro della Commissione dei Trenta. Ritornato in Italia entrò a far parte del Corpo Legislativo al quale presentò una memoria sull’organizzazione di un’armata italiana.

Nel 1805, divenuto Napoleone re d’Italia, il FØž Gian Estore divenne suo ammiratore e, quando Napoleone ritornò a Brescia, comandò la Guardia d’onore costituitasi in Brescia fra la nobiltà per accogliere il nuovo Re; nello stesso incarico accompagnò alla sua residenza la Duchessa di Lucca. Nello stesso anno presentò a Napoleone il modello di una macchina incendiaria per la difesa dei porti e delle spiagge.

Nel 1806 pubblicò un volume sulla cavalleria nel quale traccia un esame completo dell’argomento, trattando in modo particolare dell’origine e dei progressi della cavalleria, del suo uso in tempo di pace e di guerra, e quale genere di cavalleria è più adatto al Regno d'Italia, del modo di formarla, dell'istruzione, della disciplina da darle.

Nel 1807 ebbe il comando di tutte le compagnie delle Guardie d’onore, e, nello stesso anno, venne dal Viceré d’Italia inviato a Parigi per importanti affari politici.

Il 10 ottobre 1809 Napoleone lo nominò Senatore del Regno d’Italia e il 9 ottobre 1810 Conte del Regno d’Italia e con decreto del febbraio 1810 Ciambellano di corte e Cavaliere di I classe della Corona di Ferro.

Le guerre che si susseguirono gli diedero occasione di organizzare nuovi corpi armati, di adoperarsi all’approvvigionamento dell’esercito. Del resto già nella compagnia del 1809 il Viceré l’aveva voluto accanto a sé. Il Beauharnais stesso volle essere padrino di battesimo nella chiesa di S. Alessandro del figlio Venceslao nato dal matrimonio con la contessa Provaglio.

Dopo aver raggiunto il grado di colonnello, all’instaurazione nel 1814 del Governo austriaco, diede la dimissione da ogni incarico militare.

Nel 1815 venne nominato colonnello nel Reggimento Gran Duca di Toscana, ma diede subito le dimissioni.

Nel frattempo Gian Estore era entrato a far parte della Massoneria nella Reale Loggia Amalia Augusta di Brescia.

Caduto Napoleone e mortagli la moglie e un bimbo appena nato (per i quali Morcelli dettò mirabili epigrafi latine) si ritirò dalla vita pubblica e rifiutò ogni invito del governo austriaco a parteciparvi. Si prodigò invece in opere di beneficenza e culturale, circondato da viva stima. Di lui il FØž di Loggia Francesco Gambara ebbe a scrivere tra l’altro: «La memoria di quel cuore generoso, di quell’intemerato carattere e di quella buona fede, troppo spesso da alcuni scellerati usurai abusata, vivrà lunga pezza nella mente degli onesti bresciani... Si dilettò pur anco di poesia, senza portarvi però la minima pretensione. Sono bensì di avviso che se fossero fatti di comune diritto i molti inediti scritti di lui intorno ai politici avvenimenti e diplomatici negozii, dal terminare del secolo scorso fino al 1814, ch’egli per rapporti suoi particolari o pei sostenuti uffici si trovò a portata di conoscere, molta luce ne verrebbe alla storia».

Si dedicò anche alla poesia e conobbe letterati e uomini di cultura, fra cui il FØž di Loggia Ugo Foscolo che nelle sue lettere mostra di stimarlo molto, pur non ritenendolo adatto agli uffici di corte. Pubblicò: “Della Cavalleria” (Milano, per Giovanni Silvestri, 1806, in 8°, 95 pp.) e versi in fogli volanti.

A metà Ottocento, il dissesto finanziario di Giovanni Estore spingerà il figlio Venceslao a vendere la maggior parte dei beni e in seguito alla sua morte, avvenuta nel 1885, è probabile vi sia stata la dispersione dell’archivio di famiglia e proprio in quegli anni, il trasferimento di parte delle carte alla Biblioteca Mai di Bergamo. Il ramo della famiglia Martinengo Colleoni, iniziato con il condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, si estinse con il conte Venceslao, figlio di Giovanni Estore. 

Passò all’OrØž Eterno a Brescia il 29 giugno 1832 all’età di 69 anni.

MARTINENGO COLLEONI Venceslao I

(1714 - 1779)

Affiliato alla Loggia (non identificata).

Padre del FØž Giovanni Estore V Martinengo Colleoni e del FØž Vincenzo Martinengo Colleoni e nonno del FØž Venceslao II.

Figlio di Giovanni Estore IV e di Lucrezia Martinengo. Molto stimato a Brescia sposò la marchesa Drusilla (1744-1821), di Giuseppe Sagramoso di Verona, donna di grande cultura e squisitamente aristocratica e aprì a Brescia e a Bergamo salotti frequentati da persone colte e dal patriziato.

Fu massone nella Loggia Amalia (?) scrive Antonio Fappani, Enciclopeda bresciana, (ad vocem), ma essendo questa Loggia nata nel 1806, può essere che il Fappani si riferisca ad una delle prime Logge bresciane che erano in relazione nel 1773 (ma probabilmente anche molto prima) con la Gran Loge des Maîtres di Lione degli Élus Coëns.

La famiglia Martinengo Colleoni costituisce una delle numerose diramazioni della famiglia bresciana dei Martinengo e trae la sua origine dal condottiero Bartolomeo Colleoni (1392/1396 - 1475) e da Tisbe Martinengo, unitisi in matrimonio intorno al 1439; questo ramo si estinse con il conte FØž Venceslao II, figlio di Giovanni Estore e nipote (di nonno) del notro (vedi).

Passò all’OrØž Eterno nel 1779 all’età di 65 anni.

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MARTINENGO COLLEONI Venceslao II

(1810 - 1885)

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p.360).

Nato a Brescia nel 1810. Conte.

Nobile e Libero Muratore.

Figlio di Gian Estore e di Provaglio Camilla qd. Pietro.

Fu tenuto a battesimo dallo stesso Vicerè d’Italia Eugenio di Beauharnais. «Giovane avvenente, colto, portò sempre con serenità e con dignitosa rassegnazione, insieme con le due nobili sorelle, i disastrosi effetti economici della prodigalità dei suoi maggiori. Vendette a un banchiere il suo splendido palazzo di Brescia a S. Alessandro, alienò tutti i possedimenti della provincia bresciana per pagare i debiti ereditati, e si ritirò nel suo castello di Cavernago a vivere modestamente coi pochi mezzi avanzati e a meditare, senza querimonie e rimpianti, le grandi memorie della sua casa e i giuochi della cieca fortuna. Egli così mite ed operoso meritava certamente una vita più fortunata» (www.tribunalebrescia.it, Le vicende della famiglia Martinengo Colleoni, ad vocem).

Fu tra i sospettati della polizia austriaca e fu massone.

Si dedicò agli studi specie dei classici antichi e moderni e a quelli storici.

Ricoprì cariche pubbliche e fu benefico specie con l’Istituto Derelitti.

Nel 1875 entrò in cortese polemica col cugino Venceslao dalle Palle intorno alla diretta discendenza del Colleoni e pubblicò due piccoli opuscoli dal titolo: “La discendenza di Bartolomeo Colleoni. Osservazioni” (Bergamo, Gaffuri e Gatti, 1875, in 8°) e “La discendenza di Bartolomeo Colleoni. Ultime osservazioni alla replica 31 dicembre 1875 del conte Venceslao Martinengo dalle Palle” (Bergamo, Gaffuri e Gatti, 1876, pp. 13 in 8°).

Non avendo avuto figli, con la sua morte, avvenuta nel castello di Cavernago, si estinse del tutto la sua famiglia.

In seguito alla sua morte, avvenuta nel 1885, è probabile vi sia stata la dispersione della biblioteca di famiglia e proprio in quegli anni, il trasferimento di parte delle carte alla Biblioteca Mai di Bergamo, ma mettendo a disposizione dell’avvocato Giuseppe Maria Bonomi, autore de “Il castello di Cavernago e la famiglia Martinengo Colleoni”, l’archivio familiare per scrivere la gloriosa storia del suo casato.

Passò all’OrØž Eterno a Cavernago (Bergamo) il 10 settembre 1885 all’età di 75 anni.

 

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MARTINENGO COLLEONI Vincenzo

(1778 - 1831)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58 e Silvano Danesi, loggialiberopensiero.wordpress.com, ad vocem).

Araldo della Loggia nel 1809.

Nacque nel 1778.

Capitano dei Dragoni della Guardia e Cavaliere della Corona Ferrea.

Figlio di Venceslao Martinengo Colleoni (1714 – 1779) e della marchesa Drusilla Sgramoso (1744 – 1821). 

Con i fratelli Ettore (Giovanni Estore, 1763 – 1832, vedi) e Giuseppe partecipò alla Rivoluzione giacobina del 1797.

Fece parte del Governo Provvisorio e della Società d’Istruzione. Entrò nella milizia civica e divenne capitano dei Dragoni.

In quegli anni venne iniziato alla Massoneria, entrando nella loggia bresciana “Amalia Augusta”, ricoprendo ruoli di rilievo.

Dopo un periodo di carcere, a Milano, venne liberato nel 1800, e venne nominato membro della Commissione governativa e nel luglio 1801, sotto la seconda Cisalpina, venne chiamato a far parte della nuova municipalità di Brescia, ricevendo da Napoleone il titolo di cavaliere della Corona di Ferro.

Anche lui, come il FØž Massone Rutilio Calini, venne chiamato ai Comizi di Lione come rappresentante dell’Amministrazione e venne nominato a far parte del Collegio elettorale dei possidenti.

Sotto il Regno d’Italia fece una fulminea carriera militare, raggiungendo in breve il grado di colonnello.

Al ritorno degli austriaci, si ritirò nei suoi possedimenti, svolgendo ruolo di mecenate dei suoi ex commilitoni e FFØž Massoni, presso il palazzo dei Martinengo-Colleoni in piazzetta S. Alessandro.

Nel 1821 lo troviamo affiliato alla Carboneria, al fianco del conte Lodovico Ducco, e membro della società segreta dei Federati italiani.

Arrestato dagli austriaci nel 1822, venne tradotto nel carcere di Lubiana, e da lì allo Spielberg, nel 1826.

La prigionia presso le carceri austriache, per lui come per altri ospiti delle galere, gli inflisse nel corpo i segni della sua fine, che lo colse quattro anni dopo la sua liberazione.

Passò all’OrØž Eterno nel 1831 al’età di 53 anni.

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MARTINI Enrico

(1818 - 1869)

Fratello Fondatore della Regia Loggia Cenomana OrØž di Brescia (1860).

(Antonio Fappani, Enciclopedia Bresciana, voce Massoneria e Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 119, 121, 124 e Brevi note storiche sulla Massoneria bresciana).

Nacque a San Bernardino (Crema) il 18 aprile 1818. Conte, patriota, diplomatico e coordinatore massonico.

Si ha notizia della costituzione della Loggia, “Cenomana” a Brescia promossa dal FØž Enrico di Crema nel 1860, di Rito francese. Di questa Loggia si hanno poche notizie, probabilmente anche per la sua breve vita. Nel 1863, secondo il rapporto prefetizio al ministro degli Interni, la troviamo ancora attiva con a capo sempre il conte FØž Enrico Martini. Ad un certo punto della sua esistenza la Cenomana, come testimonia un’altra informativa prefettizia, sarebbe anche stata sul punto di fondersi con la Loggia Arnaldo, ma di ciò non si ha alcun dato storico. Secondo invece un rapporto dei carabinieri del 6 febbraio 1864 era [ancora esistente] di “sentimenti moderati”. Solamente in una nota del prefetto di Brescia del 17 febbraio 1868, questi assicurava il ministro dell’Interno che la Loggia Cenomana si doveva considerare ormai estinta definitivamente. (Da “Pietro Martini La costituzione della Loggia Serio a Crema nel 1862”, p. 167, 168).

Da “Pietro Martini, o. c , apprendiamo altre importanti informazioni storiche sulla Loggia e su quel tormentato periodo.

Il Risorgimento è una prova evidente della feroce contrapposizione “alle istituzioni preposte alla religione del suo popolo”, nonostante certi ricorrenti unanimismi di facciata.

L’idea del non expedit, lanciata due mesi dopo Porta Pia, riduce della metà il già esiguo due per cento di elettorato italiano.

E saranno gli anni dei dogmi, delle scomuniche, del Sillabo. Gli anni dei papi barricati nei palazzi vaticani piantonati dai bersaglieri. Nell’ambito di questo tormentato e contrastatissimo processo storico, vediamo che il periodo che va da Plombierès e Villafranca fino alle elezioni politiche dell’ottobre 1865, emergono e si consolidano, a partire dal 1859, le realtà della Loggia Ausonia e quindi del Grande Oriente d’Italia. Senza una chiara e precisa contestualizzazione della Loggia Cenomana all’interno di queste vicende più generali della Massoneria nazionale, sarebbe molto difficile riuscire a cogliere il vero significato della ragion d’essere e del ruolo svolto da questa Loggia bresciana sul movimentato scacchiere delle forze allora in campo, impegnate a contendersi con ogni mezzo, lecito e talvolta men che lecito, ogni amministrazione locale, ogni collegio elettorale parlamentare, ogni posizione istituzionale in grado di rafforzare lo schieramento liberale e laico oppure quello conservatore e clericale.

La Loggia Cenomana a Brescia, fondata, come visto già nel 1860, è guidata da Enrico Martino, che sarà successivamente MØž VØž della Loggia Serio di Crema. Il fatto è confermato da Silvano Danesi nelle sue «Brevi note storiche sulla Massoneria Bresciana», ora accessibili in forma meno riservata e però molto sintetica pure sul web. Ciò significa che il FØž Enrico, Presidente del Circolo Patrio di Crema, dopo aver fondato «L’Eco di Crema» e mentre combatteva in quella città le battaglie elettorali del 1860 e del 1861, in vista della costituzione della Loggia cremasca Serio nel 1862, già guidava a Brescia la Loggia Cenomana, una delle prime e più agguerrite logge della Lombardia.

C’era stato a Brescia un ampio vuoto temporale durante i decenni della restaurazione, come accaduto del resto in tutti i territori italiani, tra la chiusura della Loggia Amalia Augusta, inaugurata nel 1806, e questa ripresa delle attività massoniche nel 1860. È noto come la Loggia Arnaldo venne costituita a Brescia solo alcuni anni dopo la Loggia Cenomana, vale a dire nell’ottobre del 1863.

È dunque la Loggia Cenomana a essere in quel periodo, così conflittuale e turbolento, l’avamposto massonico a Brescia.

Va notata l’univocità di comando con la formazione di Crema e va pure notato che le informative prefettizie circa un possibile successivo assorbimento della Loggia Cenomana nella Loggia Arnaldo non hanno mai trovato conferma.

E quindi, quale è stato l’esito, quale fu il destino della Loggia Cenomana, punta avanzata in quegli anni della massoneria italiana verso il Veneto, verso i patrioti ancora in attesa della libertà, verso la «Venezia che spera»? Anche a Bergamo il FØž Enrico, Venerabile della Loggia Cenomana e della costituenda Loggia Serio, si attiverà per creare una nuova entità massonica.

Molto resta da scoprire anche in questo caso, a riprova di come su tali aspetti le cognizioni attuali siano molto inferiori rispetto alle possibili acquisizioni di nuove e più estese conoscenze, da ricercare lungo direttrici d’indagine ancora tutte da tracciare. Esistono ampi spazi di ricerca per chi abbia a cuore la storia dei primi sviluppi della massoneria nazionale in quei territori dopo la seconda guerra di indipendenza, nel contesto delle battaglie politiche ed elettorali di quei momenti così burrascosi ma così fondamentali per la costruzione del nuovo Stato italiano e delle sue istituzioni.

Da  Pier Angelo Gentile, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani - Volume 71, 2008, ad vocem, abbiamo la biografia del nostro FØž.

Figlio del conte Francesco e dalla contessa Virginia Giovio Della Torre fu allievo a quattordici anni del Collegio imperiale marittimo di Venezia, vi rimase per cinque anni e ricoprì per pochi mesi il grado di Guardiamarina nella Marina austriaca.

Alla morte dei genitori, nel 1836, intraprese con il fratello Alberto una serie di viaggi a Parigi e Londra. Cominciò fin da allora, nelle più importanti capitali europee, a interessarsi di politica e letteratura, intrecciando amicizie che lo avrebbero particolarmente segnato nella carriera, come quelle con A. Thiers e con T. Mamiani Della Rovere.

Rientrato in Italia, ebbe la possibilità di frequentare la più eletta società milanese, non disdegnando il sontuoso salotto della contessa Julia Samoylova nata Pahlen, nobildonna apprezzata dagli ufficiali austriaci e dunque invisa ai patrizi ostili al governo asburgico. Sebbene fosse «bel giovane, di aspetto distinto, elegantissimo nel vestire, abbondante nella parola, caro alle signore nonostante zoppicasse un tantino da un piede come Talleyrand, pieno d’ingegno e di spirito, facile ad apprendere le lingue» (Pagani, p. 5), il Martini non riuscì a guadagnarsi la piena fiducia politica di personaggi come C. D’Adda, C. Giulini, C. e I. Prinetti, sospettosi per il legame instaurato con la Samoylova.

Alla soglia dei trent’anni sposò una sorella di Luciano Manara, la quale, però, morì dopo solo otto mesi di convivenza.

Nel dicembre del 1847, dopo aver assistito la consorte moribonda in una residenza di campagna, ai primi segnali di disordini, il Martini venne invitato a rientrare a Milano dall’amico V. Toffetti, nobile cremasco e sostenitore della politica piemontese.

Nel gennaio 1848 fu testimone della rivolta milanese, si recò in missione a Torino per sondare le intenzioni del governo sardo. A tal fine a Genova ottenne da parte del marchese J. Balbi e della marchesa Teresa Doria lettere di presentazione per il conte C.G. Trabucco conte di Castagnetto, segretario privato di Carlo Alberto ed esponente di punta alla corte sabauda delle istanze filoitaliane. Giunto nella capitale ebbe diversi abboccamenti con Castagnetto, ma, per motivi di prudenza, non ottenne per il momento alcuna udienza sovrana. Consigliato di recarsi a Parigi «onde far proseliti alla causa nazionale» (Chiala, p. 398), fu testimone della caduta del regime orleanista.

Rientrato a Torino, il FØž Enrico ebbe diversi incontri con Carlo Alberto nei quali poté rassicurare il re sulle intenzioni pacifiche del governo repubblicano francese, condizione essenziale affinché il Regno di Sardegna potesse concentrarsi sulla causa lombarda.

Il 19 marzo 1848, alle prime voci sullo scoppio dell’insurrezione a Milano, il Martini, insieme con il conte C. D’Adda, si recò in udienza da Carlo Alberto per richiedere l’intervento dell’esercito piemontese, ma la cautela del sovrano frenò gli entusiasmi. Per Carlo Alberto la necessità di un diretto casus belli con l’Austria e la richiesta di aiuto da parte della Municipalità milanese erano condizioni imprescindibili per il sostegno sardo.

Con tali premesse il Martini, nonostante non avesse alcun mandato ufficiale, partì immediatamente alla volta di Milano dove riuscì a entrare clandestinamente da porta Comasina il 21 marzo. Ai membri della Congregazione municipale consigliò, di propria iniziativa, la composizione di un governo provvisorio, la richiesta di aiuto al Piemonte e un atto di dedizione a Carlo Alberto; ma queste istanze, che avevano per obiettivo la fusione della Lombardia con il Regno di Sardegna, trovarono la ferma opposizione del Consiglio di guerra rappresentato da Carlo Cattaneo.

Superata l’impasse tra monarchici e repubblicani e costituitosi il governo provvisorio, il Martini, accreditato da G. Casati, poté, non senza difficoltà, rientrare a Torino il 23 marzo latore di un messaggio che invocava l’intervento di Carlo Alberto. Ricevuto subito da Carlo Alberto e dai ministri riuniti in Consiglio di conferenza, il F Enrico fu al fianco del re quando la sera stessa dal «verrone» di palazzo reale fu dichiarata la guerra e sventolato per la prima volta il tricolore.

Il 27 marzo 1848, giorno del passaggio del Ticino da parte delle truppe sarde, il M. venne nominato dal governo provvisorio lombardo commissario presso il quartier generale di Carlo Alberto, carica che detenne fino ai primi di giugno, allorché, entrato in contrasto con Casati, decise di rinunciarvi. Particolarmente caro a Carlo Alberto, il 3 giugno il M. ottenne il grado di capitano di fregata in soprannumero nello stato maggiore della Marina sarda. In tale veste venne mandato come rappresentante a Venezia con l’incarico di attivarsi per la fusione del Veneto con il Piemonte.

Fu l’inizio di una serie di delicate missioni che sottolinearono la fiducia riposta nel Martini dal governo sardo. Nell’ottobre dello stesso anno fu inviato dal ministro degli Esteri E. Perrone di San Martino a Parigi con il compito di conferire intorno alle questioni militari riguardanti il Piemonte.

Il 24 dicembre 1848, compiuto il mandato nella capitale francese, il Martini venne scelto come segretario di legazione e plenipotenziario alla conferenza di pace di Bruxelles. Tuttavia l’assemblea non ebbe luogo, e il FØž Enrico fu dirottato a Gaeta da V. Gioberti, capo del governo sardo, che il 30 dicembre lo nominò inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso la corte pontificia in esilio. In quei frangenti la sua posizione risultò difficile a causa del rifiuto di Pio IX di ricevere il nuovo delegato, istruito da Torino a mantenere rapporti ufficiosi con il governo della Repubblica Romana. Nei limiti delle possibilità e secondo le direttive ricevute, il Martini si prodigò vanamente per la promozione della confederazione italica, per la riconciliazione del pontefice con i sudditi romani e per far accettare a Pio IX l’offerta di Carlo Alberto di un presidio militare sabaudo da dislocare nella Romagna minacciata dall’invasione austriaca.

Alla rottura dell’armistizio e alla ripresa delle ostilità tra Piemonte e Austria il Martini chiese a Carlo Alberto di rientrare subito nell’esercito. Ma il re lo pregò di continuare a svolgere la sua missione alla corte papale.

Il 12 giugno 1849, dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, il Martini, convinto di non essere più fedele interprete del governo e in dubbio sulla fiducia del nuovo sovrano Vittorio Emanuele II, chiese congedo dalla diplomazia e dall’esercito. Escluso dall’amnistia austriaca, il 25 agosto fu ammesso a fruire della nazionalità sarda. Nonostante gli ostacoli posti alla sua carriera da vari avversari politici, nell’ottobre del 1849 fu accettata la sua domanda di reintegro nella diplomazia e gli fu nuovamente conferito dal sovrano il grado di capitano di fregata.

Era nel frattempo cominciata la sua carriera nelle istituzioni.

Il 2 febbraio 1850 fu eletto nel VII collegio di Genova, si legò particolarmente al gruppo cavouriano intervenendo alla Camera più volte in qualità di relatore della commissione sul bilancio, passivo, della Marina. Il 5 febbraio 1850 fu insignito del titolo di commendatore dell’Ordine Mauriziano.

Nel gennaio del 1851 contrasse nuovo matrimonio con Maria Luisa Flavia Canera di Salasco, figlia del generale Carlo, legame destinato però a segnare negativamente la vita del Martini.

Tra i sostenitori del connubio Cavour-Rattazzi, tra l’agosto e l’ottobre del 1852 fu al centro dell’attenzione pubblica allorché accompagnò Urbano Rattazzi a Parigi per la visita all’imperatore Napoleone III. Nel 1853, colpito dal sequestro dei beni da parte dell’Austria, il Martini si trovò, anche a causa della condotta della moglie, in gravi difficoltà economiche.

L’appoggio del FØž Camillo Benso conte di Cavour alla sua intensa attività nel campo degli affari non bastò a distoglierlo da una scelta drastica quanto grave: deluso probabilmente dalla propria marginalità politica e dai problemi familiari – il 20 dicembre 1853 la curia arcivescovile di Torino aveva annullato il matrimonio – nel 1854 decise infatti di rimpatriare, prestando giuramento all’imperatore austriaco dopo avere rinunciato alla nazionalità sarda. Quel gesto, destinato a macchiare per sempre la sua reputazione, provocò profonda amarezza negli ambienti liberali e fu vissuto come un tradimento dagli esuli.

Ritiratosi a vita privata, il Martini frequentò il salotto parigino della sorella Emilia, moglie del conte L. Taverna.

Nel gennaio del 1859 riprese i contatti con Cavour che lo incaricò di fornirgli notizie sulle forze nemiche stanziate nel Cremasco. Dopo l’annessione della Lombardia il Martini fondò a Crema, a proprio sostegno politico, un’associazione di liberali, il Circolo patrio, e un gazzettino, l’Eco di Crema.

Legatosi politicamente a Urbano Rattazzi, fu eletto deputato nei collegi di Crema e Soresina dalla VII alla X legislatura.

Su Enrico Martini (1818-1869), primo Venerabile della Loggia Cenomana, si veda anche il Fondo Archivistico a lui intestato presso il Museo del Risorgimento di Milano, donato dalla sorella Emilia Martini Taverna nel 1894, ordinato in tre cartelle e cinque plichi; il Fondo contiene documenti essenziali per lo studio del personaggio, dai quali è tratta la maggior parte degli elementi non muniti in questo lavoro di specifica nota con richiamo della fonte. Si veda quindi Milvia Fodri, Matr. 48497, Il Conte Enrico Martini, Tesi di Laurea archiviata come Nr. T-B 8251, Relatore Prof. Leopoldo Marchetti, Controrelatore Prof. Ottavio Barié, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi, Milano, anno accademico 1963-1964: questa è di gran lunga l’opera più valida oggi esistente su Enrico Martini, frutto di ricerche e indagini d’archivio fondamentali. Si veda inoltre Pierangela Bonomi, Il Conte Enrico Martini Giovio della Torre nella Storia del Risorgimento, Tesi di Laurea Nr. 87556, Relatore Prof. Bernardino Ferrari, Facoltà di Magistero, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1972: è un lavoro di notevole interesse e utilità, sia pure con qualche generosa condiscendenza verso certa libellistica meneghina (Pagani) e certa storiografia cremasca non proprio equanime (Benvenuti). Si veda poi il valido articolo di Veronica Vaccari e Filippo Carlo Pavesi, Il Conte Enrico Martini (1818-1869), ambasciatore, in Insula Fulcheria, Numero XLI, Castelleone, G&G srl, 2011, volume “Storia, Saggi, Ricerche”, pagine 78-91. Si veda infine, sul sito web della Società Nazionale (www.societanazionale.it), nella parte relativa ai Personaggi, quanto riportato su Enrico Martini.

Passò all’OrØž Eterno nella villa di San Bernardino (Crema) il 24 aprile 1869 all’età di 51 anni.

 

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MAS Alberto Giuseppe

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p.58).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Forse Giudice conciliatore (?).

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Alberto Giuseppe Mas non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MASPERI Carlo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Di Brescia.

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Carlo Masperi non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MAZZON Giulio

(1920 – 2005)

Gran Maestro e fondatore della Comunione dei Liberi Muratori (fondata nel 1995) e Gran Maestro Onorario [postumo] del Grande Oriente d’Italia.

Già affiliato alla Loggia Scienza e Umanità N° 712 all’Oriente di Roma all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia.

Nato a Brescia il 20 gennaio 1920.

Socialista, partigiano delle Fiamme Verdi nella sua Valcamonica, giornalista, scrittore, poeta, Segretario Generale dell’ANPI, condirettore della rivista “Patria”.

Fu esempio di impegno civile: per lui gli ideali di democrazia e solidarietà non conoscevano stagioni. Bresciano di nascita e cittadino onorario di Esine in virtù dei meriti conquistati sul campo durante la Resistenza, come comandante delle Fiamme Verdi.

Fu iniziato alla Massoneria nella Rispettabile Loggia Scienza e Umanità N° 712 all’Oriente di Roma all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, del quale era, all’epoca, Gran Maestro Lino Salvini. Fu presentato da Fausto Nitti, nipote dello statista omonimo e protagonista della ormai leggendaria “fuga da Lipari” dove era stato confinato. Il Nitti si esiliò a Parigi e si adoperò per la ricostituzione del G.O.I. in Francia, poiché in Italia il Grande Oriente era stato sciolto ed il Gran Maestro Torregiani era stato confinato.

Mazzon adempì i propri doveri di Maestro venerabile per nove anni nella Loggia dove era stato iniziato. Nelle elezioni indette per l’installazione di un nuovo Gran Maestro, nel 1981, fu scelto, dalla votazione di base del G.O.I., per far parte della terna da sottoporre alle votazioni di Gran Loggia per la scelta del Gran Maestro. I tre prescelti furono Ennio Battelli (Gran Maestro uscente), Armando Corona (Presidente della Corte Centrale Massonica) e Giulio Mazzon (Venerabile della Loggia Scienza e Umanità). Fu eletto Armando Corona. Mazzon, in occasione della sua candidatura, pubblicò un messaggio dal titolo: “Per una comunione d’intenti”.

“Il 20 marzo 1995, data equinoziale, il Gran Maestro Giulio Mazzon, 33° Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, lesse la balaustra di insediamento della Gran Loggia della Comunione dei Liberi Muratori. Fu l’ultimo atto di una lunga e complessa vicenda, iniziata nel 1977, che lo vide protagonista di una serie di avvenimenti tesi a salvaguardare la Massoneria italiana dalle bufere che l’hanno investita negli anni Ottanta e Novanta, con una evidente fedeltà, per chi ha occhi per vedere, orecchie per intendere e mente scevra da pregiudizi o da vizi di potere, al Grande Oriente d’Italia”.

La vicenda massonica di Giulio Mazzon è narrata nel saggio di Silvano Danesi: “Processo ai massoni”, acquistabile su www.ilmiolibro.it, ricco di documenti, raccoglie la relazione e le testimonianze del convegno: “Giulio Mazzon, l’uomo, l’amico, il maestro”, tenutosi a Brescia sabato 12 marzo 2011, all’Hotel AC, organizzato e promosso dall’Associazione Culturale Minerva Onlus di Marone (Brescia) e dell’Associazione Amici di Giulio.

Nella prima metà degli anni Novanta, periodo di grande crisi della Massoneria in Italia, il suo percorso massonico si allontanò dal Grande Oriente costituendo una nuova Obbedienza, denominata Comunione dei Liberi Muratori, della quale fu eletto Gran Maestro. Con la sua Massoneria-madre del G.O.I. e i suoi vertici continuò tuttavia ad avere ottimi rapporti. Nel 2007, due anni dopo la sua morte, la scissione fu sanata e i fratelli alla sua obbedienza tornarono al Grande Oriente, primo fra tutti suo figlio Ivano. Scrisse il Gran Maestro Raffi all’indomani della sua morte: “Anche se le nostre strade si erano divise restano immutati il nostro affetto e la nostra stima”. E la nomina postuma a Gran Maestro Onorario in Gran Loggia 2008 alla presenza della vedova e del figlio, ne è la più grande dimostrazione (Erasmo, n. 7-8, 2008).

Da www.anpi.it/donne-e-uomini del 7 Febbraio 2020 conosciamo la sua biografia.

Studente universitario, chiamato alle armi durante la Seconda guerra mondiale, divenne ufficiale di complemento dell'Aeronautica.

Nel 1943 iniziò l’attività antifascista organizzando trasmissioni radio pirata.

Arrestato, fu mandato sotto processo ma riuscì a porsi in salvo grazie all’intervento del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale). Datosi alla macchia, con il nome di battaglia “Silvio” assunse il comando di una formazione partigiana inquadrata nella Divisione Fiamme Verdi “Tito Speri”, operante in Valcamonica. Alla testa dei suoi uomini partecipò a numerose azioni e, nell’inverno 1944-'45, alla battaglia del Mortirolo.

Dopo la Liberazione fu segretario della Federazione socialista di Brescia e componente del Comitato centrale del P.S.I., nelle cui liste venne anche eletto consigliere comunale e provinciale.

È stato uno dei segretari nazionali dell’A.N.P.I. (a partire dal 1956) e membro del Comitato direttivo della F.I.R. - Federazione Internazionale dei Resistenti.

Condirettore dal 1974 della rivista Patria Indipendente, quindicinale dell’ANPI, ne assunse la direzione per un breve periodo nel 2005, prima della morte.

È stato autore di numerosissime pubblicazioni saggistiche e letterarie ispirate alla Resistenza.

Nel 1946: cofondatore e direttore di “Valcamonica Socialista”; nel 1948: direttore di “Brescia Nuova”; condirettore del quotidiano “Fronte democratico”; nel1952: partecipa con un gruppo di studenti e dà vita a “Polemica” su cui pubblica Estetica Marxista; nel1964 : riceve dal Presidente del Consiglio dei Ministri (On. Fanfani) il Premio alla Cultura, collabora a Quarto Stato , Avanti, Mondo Operaio, Incontri Mediterranei con un saggio sulla guerra d’Algeria derivante dalla sua diretta esperienza sul posto e tradotto in tre lingue, Resistenza, L’Incontro, Resistance unie (Vienna), Patria, Bresciaoggi, Iniziativa Europea, Trud (Mosca), Espresso Sera (Catania); nel 1966: dal testo di Tufo Ardeatino sono stati tratti i versi pubblicati nell’Antologia della Resistenza Europea poi musicati dal Direttore d’orchestra e violinista Nino Medin per una cantata eseguita in prima assoluta in Milano l’11 Gennaio 1967; in lingua ebraica sono stati pubblicati brani tratti da Sortì Sena e Alle Porte di Brandeburgo. Le pubblicazioni in poesia: nel1950: Volo di Ritmi con illustrazioni di Anna Coccoli; nel 1955: Vigilia con illustrazioni di Marino Mazzacurati segnalato al Premio nazionale di poesia Cittadella; nel 1956: Sorti Serena; nel 1961: Orologi e stati; nel1966: Clarino sperduto; nel 1969: Sono soltanto un uomo finalista al premio Nazionale Viareggio e medaglia d’oro al Premio Nazionale di Poesia Cardarelli; nel 1979:  Inutili cieli torvi; nel 1982/84: Il bambino dai capelli bianchi, Il tempo e l’uomo; nel 1988: Corte d’Europa, Borec; nel 1991: Civitas, Quasi un corale.

Le pubblicazioni in prosa: 1947: Ribelli; 1949: Fantocci?; 1956: La resistenza nella letteratura Italiana (Vienna;1957: Resistenza con prefazione di F. Parri; 1958: Un albero era un albero in finale al premio Viareggio nel 1959; 1975: Lo zaino del partigiano; 1985: Il sommergibile accusa; 1986: Non spengere il lampione a Vienna; 1990: Occhi verdi.

Nella saggistica: Rapporto sugli equilibri dell’armamento atomico; La capziosità del primo intervento a grande gittata; Militari non impiegati d’ordinaria amministrazione; Per l’Italia una nuova forza morale politica; Per il valzer dell’Imperatore (1994); Dalla prima Repubblica niente di nuovo (1995).

Molti dei suoi testi sono stati tradotti in ebraico, tedesco, inglese, serbo e russo.

Passò all’OrØž Eterno a Roma il 23 maggio 2005 all’età di 85 anni.

 

 

MAZZONI Giuseppe

(1756 - ?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Diacono della Loggia nel 1809. Cavaliere Eletto dei IX del R.S.A.A.

Nacque nel 1756. Impiegato di Ragioneria. Nel 1831 aveva 75 anni.

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Marocchetti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

MAZZUCHELLI Luigi (o MAZZUCCHELLI)

(1776 - 1868)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 52 e 63, citato errato come MAZZUCCELLI e Sergio Onger, Mazzuchelli, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, 2008, versione online; Enciclopedia bresciana, vol. IX, pp. 67-68).

Nacque a Brescia il 19 settembre 1776 da Francesco e Isabella Conforti. Conte.

Fu generale di brigata francese con Napoleone I, poi Maresciallo nell’esercito austriaco.

Dopo aver ricevuto le prime basi dell’istruzione dal giovane matematico e studioso di ingegneria A. Sabatti, entrò il 12 marzo 1784 nel collegio Cicognini di Prato dove rimase fino al 25 settembre 1793.

L’internamento in collegio, documentato da un nutrito carteggio con il padre (ora integralmente pubblicato), coincise con la separazione dei genitori e fu deciso dal padre che voleva allontanarlo il più possibile da Brescia per impedire ogni contatto con la madre.

Dopo l’uscita dal collegio, rimase per un anno a Firenze nella casa dell’avvocato L. Ambrosi e qui, oltre a prendere lezioni di scherma ed equitazione, seguì corsi di retorica, matematica, giurisprudenza.

Al ritorno a Brescia il FØž Mazzuchelli aderì alla massoneria (A. Luzio, o.c.). Si è anche sostenuto che in questo periodo egli «fece una rapida carriera nelle file dell’esercito austriaco» (Giacchi), ma la notizia non trova conferma nelle fonti. Risulta invece che, conquistato dalle idee giacobine e repubblicane, partecipò all’assalto del broletto durante la rivolta del 18 marzo 1797, che portò alla fine della dominazione veneta nel Bresciano. Costituitesi le truppe del governo provvisorio, prese parte come ufficiale alla spedizione di Salò contro gli oppositori del nuovo regime; poi, l’11 maggio 1797, fu nominato «capo di mezza legione» nella Legione bresciana e, in seguito, divenne capo battaglione nell’esercito della Repubblica Cisalpina.

Nell’aprile del 1798 il Mazzuchelli era comandante della piazza militare di Bologna quando, si rese complice della congiura di ispirazione babuvista organizzata dal molisano Orazio De Attellis con l’intento di democratizzare la Toscana e rovesciare il governo granducale; il complotto fallì ma, a differenza di De Attellis, il Mazzuchelli non subì conseguenze di sorta.

Ritiratosi in Provenza dopo l’arrivo in Italia degli Austro-Russi, conobbe e poi sposò l’8 febbraio 1800 Paolina d’Eiderdy (1781-1859), originaria di Nizza, da cui ebbe almeno dieci figli.

Di questi si ricordano il primogenito Federico (1801 - 1809), Giuseppe Faustino Filippo (nato nel 1802), iscritto anche lui al Cicognini dal 1810 al 1815, Paolina Felicita (nata il nel 1805), Giovanni Maria Federico (nato nel 1811), Isabella Maria (nata a nel 1815), Elena, sposata a Claudio Bossi nel 1842.

Rientrato in Italia nel maggio del 1800 con il grado di Capo legione, equivalente a quello di colonnello, il Mazzuchelli fu presente, con la Legione italiana comandata dal generale FØž Giuseppe (Joseph) Lechi, alla campagna della Romagna.

Il 7 ottobre 1807 fu nominato generale di brigata.

Nel 1808 con questo grado prese parte alla guerra di conquista della Spagna nella divisone comandata dal generale D. Pino e sotto il comando di Giuseppe Bonaparte, “il re filosofo”, come lo chiamavano i Fratelli. Con lui erano altri due generali appartenenti alla stessa Loggia, i FFØž Giuseppe e Teodoro Lechi (vedi voce ad nomen); ed ecco la Regia Loggia Amalia Augusta inneggiare all’avvenimento con una pubblicazione, che raccoglie l’eco dei componimenti letterari recitati all’agape fraterna del giorno 8 febbraio 1809, Giuseppe Napoleone in Madrid, Agape del GØž 8 del MØž 12 – AnØž dØž vØž LØž 5808 – Brescia, pp. 43 in 16 s.i.t. Il piccolo opuscolo, del quale è una copia nella miscellanea queriniana 5° K. IX. 15 proveniente dalla biblioteca Giambattista Pagani (vedi).

Il 22 agosto 1808 partì da Novara con 4.064 fanti reduci dalla Pomerania e il 21 settembre varcò i Pirenei. Il 6 novembre schierò le sue truppe all’assedio di Rosas, conclusosi il 5 dicembre con 700 perdite. L’anno seguente fu impegnato nell’assedio di Gerona. Dopo la resa della città, il 10 dicembre 1809, il generale Pino rientrò in Italia lasciando il comando interinale della divisione al Mazzuchelli, che lo tenne fino al 26 marzo 1810.

Il 4 giugno 1810 a conclusione della campagna di Spagna ottenne il titolo di barone dell’Impero, con una dotazione annua di 4.000 franchi. Tornato nuovamente in Italia nel 1814, il 5 maggio venne nominato dal viceré Eugenio di Beauharnais capo di stato maggiore e generale di divisione.

Mentre il regime napoleonico entrava in crisi, le pressioni del conte Enrico Giuseppe Bellegarde lo indussero a passare il 2 luglio 1814 al servizio dell’Austria col grado di tenente maresciallo nell’esercito austriaco (Cfr. il giudizio di Torresani in Luzio p. 341), con il compito di sciogliere l’armata italiana e ricostituire un nuovo corpo. Nominato titolare di un reggimento di fanteria, venne destinato a comandare una divisione nella Stiria e per diversi anni prese residenza a Graz. Fu all'assedio di Strasburgo e al blocco di Landau e fece parte della commissione di Basilea per la delimitazione dei nuovi confini fra l’impero e la Francia. Nel 1830 fu nominato vicepresidente del Supremo Consiglio aulico di guerra, poi Generale di artiglieria e infine, il 20 giugno 1834, consigliere intimo dell’imperatore; gli fu anche riconosciuto il titolo di conte austriaco per le linee maschile e femminile, mentre il titolo di conte confermato a Venezia il 25 marzo 1817 era limitato ai soli maschi.

Divenuto nel 1840 governatore della fortezza di Mantova, fu collocato a riposo nel 1846.

Tornato a Brescia, alternò il soggiorno in città a quello nella sua dimora di campagna a Montichiari, dove allestì una specola e una sorta di museo-biblioteca aperto agli amici. Tra gli oggetti conservati vi erano le raccolte del nonno Gian Maria Mazzuchelli, tra cui i manoscritti, le voci inedite del dizionario bio-bibliografico Gli scrittori d’Italia e la preziosa collezione di medaglie (tali materiali – rispettivamente conservati presso la Biblioteca vaticana e nei Musei Civici di Brescia – furono gelosamente custoditi dal padre Francesco, alla morte del quale passarono in eredità al Mazzuchelli). I possedimenti della famiglia erano Villa Mazzuchelli a Ciliverghe e Palazzo Mazzuchelli a Montichiari.

Allo scoppio dei moti del 1848, il FØž Luigi raggiunse il 18 marzo a Verona l’arciduca Ranieri, quindi riparò a Vienna. Da qui, il 6 aprile, informava con una lettera il generale (cugino e FØž Massone) Teodoro Lechi, nominato comandante in capo delle truppe lombarde, della volontà della corte asburgica di giungere a una trattativa di pace con gli insorti. Tuttavia il suo tentativo di mediazione incontrò la ferma opposizione del partito militare capeggiato dal generale J.J. Radetzky e venne abbandonato.

Negli ultimi vent’anni della sua vita il Mazzuchelli visse in Austria e in Spagna, considerandosi suddito austriaco fino alla morte, avvenuta a Vöslau, in Austria, il 5 agosta1868.

Passò all’Or Eterno a Vienna il 5 agosto 1868 all’età di 92 anni.

 

 

MEJAN Stefano (Etienne o Étienne Pierre)

(1766 - 1846)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 52).

Nacque a Montpellier l’11 febbraio 1766.

Avvocato, giornalista, pubblicista, ufficiale e uomo politico francese.

Mejan andò a Parigi giovanissimo con l’intenzione di esercitare la professione di avvocato.

La rivoluzione francese fu il risultato immediato delle prime sessioni degli Stati Generali del 1789, disperse insegnanti e alunni e ciascuno di loro cercò di svolgere un ruolo nella nuova era che stava nascendo.

Partigiano delle idee rivoluzionarie, fu in quell’anno 1789 tra i primi a pubblicare i resoconti dell’Assemblea nazionale.

Méjan conobbe anche Hugues-Bernard Maret, e insieme avviarono un piccolo giornale intitolato Bulletin of the Assembly (dove i dibattiti dell’assemblea furono riassunti con accuratezza e obiettività) inserito nel Monitor universale

Lavorò anche a lungo al Moniteur, e contribuì non poco a farlo conoscere per l’abilità con cui seppe cogliere la sintesi di tutti i discorsi. Con questo suo talento, insieme al grande piacere dell’umorismo e una vivace conversazione, fu facile per Méjan fare conoscenze utili; fu notato soprattutto da Mirabeau, che lo associò alla redazione del suo giornale Courier de Provence. I suoi principi erano costantemente amici della libertà costituzionale. Conobe anche Frochot, un amico speciale di Mirabeau.

Durante le prime due assemblee (Costituente poi Legislativa), Méjan si è occupato di giornalismo e di alcuni scritti di politica, ma sempre in senso moderato. 

Fu in disparte durante la dittatura di Roberpierre, il tempo del Terrore, e si occupò della sua professione di avvocato.

Dopo il colpo di stato del 9 Termidoro Anno II , ha lavorò con Dupont de Nemours , al quotidiano L'Historien .

Dopo il colpo di stato del 18 brumaio, anno VIII , il generale Bonaparte , che voleva adulare sia i sostenitori della monarchia che quelli della rivoluzione, credette di realizzare questo obiettivo dando la sua fiducia agli amici di Mirabeau: nominò prefetto Frochot de la Seine e Méjan segretario generale della prefettura.

Méjan divenne bonapartista e durante il regni d’Italia fu, dal 1804, uomo di fiducia di Eugenio di Beauharnais. Pubblicò un’edizione delle opere e dei discorso di Mirabeau (5 voll., 1791-92).

Fu uno dei più alti ed influenti dignitari della corte di Milano. Segretario particolare del Viceré Eugenio di Beauharnais.  

L’ 8 ottobre 1809 Napoleone lo ricompensò riempiendolo di onori: già consigliere di Stato, ufficiale della Legion d’Onore, cavaliere del Real Ordine della Corona di ferro e segretario degli ordini di S.A.I il Viceré, fu nominato Conte dell’Impero e del Regno d’Italia. Questi favori si aggiunsero notevolmente ai suoi già considerevoli compensi. Il Mejan fu nel Consiglio legislativo del Governo del Regno d’Italia del 1813.

La natura premurosa di Mejan lo portò a rispondere con promesse lusinghiere a tutte le richieste che gli venivano fatte. Raramente però le promesse avevano il loro effetto e gli italiani lo chiamavano un Gran Promettitore [che faceva grandi promesse senza avere la possibilità o la volontà di mantenerle]. Era considerato tra loro come il responsabile della maggior parte dei proclami del viceré. A lui è stato attribuito quello con cui, per consolare i contribuenti già molto gravati da un forte aumento delle tasse, cercarono di convincerli che pagavano molto meno che ai tempi del governo austriaco, cioè quando non pagavano quasi nulla. Questo annuncio non rimase a lungo pubblicato: una mano invisibile lo fece rimuovere.

«Non meno esoso al popolo era Stefano Mejean, figlio d’un medico di Montpellier; che dall’ avvocatura per la Rivoluzione gittatosi al mestiero più facile di giornalista, e sapendo profittar de’ pensieri altrui, divenne segretario, e blandendo i democratici, pur conservava alcuni usi aristocratici, come la pettinatura e la cipria che mai non abbandonò. Passava quindi come d’opinioni moderate, e Buonaparte lo credette opportuno da metter a fianco ad Eugenio, ed ottenne grande influenza nelle cose del Regno come segretario degli ordini del viceré. Abilissimo nel maneggio degli affari, mancava del coraggio, virtù del resto non comune, di dire la verità ai padroni, e come era lusinghiero a questi secondandone le passioni, così profondeva buone parole e null’altro ai sudditi, e fidava nell’eternità delle cose che lo circondavano. Eugenio cercò più volte di farlo consigliere di Stato, ma Napoleone sempre vi repugnò, finché il Mejean si rese cittadino italiano, e si fece elegger membro del Collegio dei dotti. Il nome di lui restò come il capro emissario degli odj diretti contro quel viceré e quel Governo» (Cesare Cantù, Il principe Eugenio memorie del Regno d’Italia, Storie e Memorie, Vol. XXXIII, Libro II, 1870, p. 173).

“Il Méjan, che, vano, amante del lusso, dedito ai piaceri e infatuato dei Francesi, contribuì ad alienare dal novello viceré gli animi degl'Italiani” (Alessandro Giulini, Enciclopedia Italiana (1930), Treccani, voce Beauharnais Eugenio de, viceré d'Italia).

Scrisse il libello Le Roi Pino à la bataille des parapluies, Stefano Méjan (stampato in Germania nel maggio 1814) avverso al generale Domenico Pino, che era già stato bersaglio a ben altre contumelie e alla meglio se n’era schermito.

Molto legato alla famiglia di Eugene Beauharnais, quando questo diventò granduca ereditario di Francoforte e I° duca di Leuchtenburg dopo aver sposato Augusta, figlia di Massimiliano I°, nel 1816 , il FØž Méjan si stabilì a Monaco di Baviera, dove lo aveva seguito e divenne governatore dei figli del principe, poi ciambellano del re di Baviera e rimase a Monaco fino alla fine della sua vita. Uno dei suoi due figli morì nella campagna di Mosca e l’altro divenne un capo squadrone aiutante di campo del principe Eugenio.

Pasò all OrØž Eterno a Monaco di Baviera il 19 agosto 1846 all’età di 80 anni.

 

 

MOCINI Giacomo

(1765 - 1842)

Membro della Reale Loggia Amalia Augusta di Brescia.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 360).

Nacque nel dicembre del 1765 a Odolo (brescia), terra di Valsabbia.

Segretario del Municipio di Brescia, letterato e poeta.

Partecipò attivamente alla rivoluzione giacobina (1797); fu membro del Consiglio Legislativo e del Comitato di Pubblica Vigilanza; a seguito dell’occupazione austro-russa riparò in Francia (1799); fu membro della Loggia massonica Regina Amalia, poi della Federazione Italiana; con il ritorno dei francesi, è segretario del Municipio di Brescia, incarico che svolge, per 38 anni, con lode [Pierfranco Blesio, «Compendio bio-bibliografico dei Soci dell'Accademia del Dipartimento del Mella, poi Ateneo di Brescia, dall’anno di fondazione all’anno bicentenario (1802 - 2002)»].

Questo colto cittadino e funzionario meritissimo del bresciano municipio. Educato rozzamente nel villaggio natale, dovette quasi affatto a se stesso la coltura acquistata nelle buone lettere e la riputazione di arguto ed elegante poeta. Dopo la rivoluzione bresciana del 1797 ebbe posti cospicui nei successivi governi, ed eletto a far parte del consiglio legislativo e del comitato (come allora si diceva) di pubblica vigilanza, in tempi nei quali era un merito l’intolleranza, e la moderazione una colpa, od essere moderato. Spatriatosi al giungere degli Austro - russi nel 1799, viaggiò in Francia, e dimorò lungamente a Parigi, dove la conoscenza e la pratica degli uomini più celebri di quella metropoli ampliò il corredo delle sue cognizioni letterarie e politiche. Tornato a Brescia, assunse le funzioni di segretario municipale, che sostenne per anni trentotto con zelo, equità, solerzia e benemerenza distinta. Lasciò tre dialoghi in prosa sopra materie di patrio interesse, e molte poesie, parte stampate in raccolte, parte in foglio volante, e parte inedite” (Necrologio e/o Commemorazione, G. Nicolini, Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno accademico M.DCCC.XLIV,1844 – 1846, ad vocem). 

Autore di versi dialettali di ispirazione giacobina. Sua è forse la farsa intitolata: “El diàol l'ha pèrs i coregn, o sia l’aristocratic convertit” (Brescia, 1797), vivacemente polemica contro la nobiltà. Scrisse sotto gli pseudonimi di Anellino Gettibacca e forse di Gaetano Baccinelli.

Testamento dell'adriaco leone. Scritto dal cittadino Mocini medico di Lonato, Giacomo Mocini, 1797 - 16 pagine

Passò all’OrØž Eterno a Brescia il 18 dicembre del 1842 all’età di 77 anni.

 

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MOLINARI Giambattista

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Di Calvisano (“Commentari della Accademia di Scienze, Lettere, Agricultura, ed Arti del Dipartimento del Mella”).

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Giambattista Molinari non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MONARD Luigi

(?)

Fratello affiliato della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 62).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Luigi (o Louis) Monard non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MONSELICE Giuseppe

(? - 1837)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Di Maderno, Riviera di Salò.

Durante il periodo di fermento sociale e politico dei moti del '48 invece non si può dire che l'Ateneo si fece promotore dei nuovi ideali patriottici, anche perché i componenti erano per lo più sacerdoti e professori, dalla mentalità conservatrice e conformista, anche se questo non significa che non ci furono accademici che parteciparono al riscatto nazionale. Tra questi Giuseppe Monselice, Angelo Anelli, membro del Comitato Segreto di Brescia [FØž Massone della stessa Loggia Amalia Augusta, vedi] e Andrea Rotigno.” (Valentina Ziliani, Matricola 843707, Tesi di Laurea, L’Ateneo di Salò e la sua biblioteca, Relatore Ch.ma Prof.ssa Dorit Raines, Anno Accademico 2014 / 2015).

“[Lo] scorrere di tirolesi nel gennaio del 1814, preannunciarono l’arrivo imminente degli austriaci, che appena stanziativi vennero il 17 febbraio ricacciati dalle truppe del gen. Lechi che vi rimasero fino al 7 maggio quando sbarcarono le truppe del gen. Bellegarde. Seguirono anni di carestia e poi di ripresa economica, senza che si manifestassero segni di cospirazioni unitarie. Unico forse a contestare la dominazione austriaca fu Giuseppe Monselice, massone, che probabilmente partecipò alla cospirazione del 1821” (A. Fappani, Enciclopedia bresciana, voce Maderno).

Il F Monselice è citato tra i membri dell’Ateneo di Salò come “ussaro, massone della Loggia Amalia Augusta, amico di Moretti e di Lechi” (Albano Sorelli, Inventari dei manoscritti delle biblioteche italiane, Salò, Vol. XLIV, p. 12).

Ai primi di ottobre  del 1797 ebbero luogo le estrazioni degli usseri richiesti dal Buonaparte dovendo comperare il cavallo e mantenersi a proprie spese. Quelli che estratti dimostrarono di non poter mantenere la spesa ingente furono licenziati. (Cronaca A. Bazzini in Cronache bresc. vol. III e cfr. anche Ugo Da Como, La Repubblica bresciana nel 1797, Bologna, Zanichelli, 1926.). Il corpo degli usseri fu sciolto dal Buonaparte alla sua partenza dall’Italia. (A. Zanoli, Milizia Cisalpina); un solo madernese, il FØž Giuseppe Monselice, si arruolò tra gli ussari, che il Buonaparte reclutava tra i giovani delle migliori famiglie.

Il 16 aprile 1814 ci fu l’armistizio di Schiarino-Rizzino che segnò la fine del Regno Italico e delle manovre per dare ad Eugenio la corona Reale. Nello scoraggiamento generale che succedeva al tempestoso tramonto dell’astro napoleonico, molte luci sembravano spegnersi anche nel cielo d’Italia. Ma non era che uno smarrimento momentaneo, e la congiura militare del ‘14, più che chiudere un ciclo sorpassato, ne apriva uno nuovo.

Che in Maderno si ripercuotesse una eco delle idee che andavano maturando, non sembra improbabile, ma forse il solo che tendessse l’orecchio, mantenendosi in rapporti di amicizia con patriotti come i FFØž Teodoro Lechi e Silvio Moretti, era il già ricordato Giuseppe Monselice, ch’era stato anche sindaco di Maderno, ed erasi inscritto alla Loggia Amalia Augusta, della quale era stato venerabile il gargnanese Jacopo Pederzoli. Forse il Monselice appartenne a quella famosa XI Falange del Benaco, alla quale erano ascritti anche il Grisetti e l’Andreoli di Toscolano. Tra gli affigliati alla federazione, il Guerrini pone Bernardino Maceri da Salò e Mario [o Marino] e Giuseppe Rubbi da Desenzano; questi ultimi [due]erano tra i membri originari della Loggia Amalia Augusta, col Pederzoli, con Giampietro Fossati da Toscolano, Giuseppe Pederzani da Gargnano, e i due madernesi Monselice e Gian Maria [o Giammaria] Roscio. (Cfr. La massoneria a Brescia nel 1821, in Miscellanea di studi a cura dell’Ateneo di Brescia - 1925). Le cospirazioni e i processi del ‘21 ebbero così una eco a Maderno e in Riviera, sia per la prossimità dell’Isola dove l’abitazione del conte Lechi era stata perquisita dalla sbirraglia austriaca, sia per la presenza dei suddetti affigliati al secondo ramo della federazione, che faceva capo allo stesso Lechi. Gli Andreoli e il Monselice, con il Fossati, già comandante della G.N. e con il medico G.M. Avanzini, li troviamo tra i fondatori del Casino di Toscolano, (29 agosto 1825) che a imitazione di vari altri sorti in Riviera, doveva servire «nelle conversazioni private, nei ritrovi amichevoli, a commentare le notizie, leggere i proclami applaudire gli scritti clandestinamente introdotti, nei quali fosse cenno delle speranze, delle aspirazioni, dei diritti della patria... Nei Casini di conversazione, sotto pretesto di divertimento, si trovava modo di unirsi in parecchi senza dar sospetto alla polizia, per trattare di ciò che era la preoccupazione dei più nobili intelletti, il modo cioè di affrettare che la generosa utopia dei migliori, diventasse la coscienza di tutti» (Guido Lonati, Maderno La pieve e il comune, 1934, , in «Memorie dell’Ateneo di Salò», p. 265, 274, 275).

Passato all’Or Eterno il 6 febbraio 1837 (Ateneo di Salò Fondo Botturini-Grisetti)

 

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MONTANARO Giuseppe

(?)

Nell’elenco della Loggia Propaganda 2 del GØž OØž IØž. (Brescia n. 906).

Colonello dei carabinieri, comandante della Legione Brescia, Tessera n. 2190, Fascicolo 0906 (Mario Guarino e Fedora Raugei, Licio Gelli, Vita, misteri, scandali del capo della Loggia P2, p. 380).

L’elenco dei soggetti appartenenti alla P2 fu reso pubblico dalla presidenza del Consiglio dei ministri il 21 maggio 1981.

Non è possibile sottacere in questo elenco ancorché incompleto del Liberi Muratori bresciani i Fratelli che sono stati coinvolti nel fenomeno piduista. Sulla base della documentazione acquisita agli atti della Commissione parlamentare sulla vicenda della Loggia P2 di Licio Gelli, all’Obbedienza del Grande Oriente d’Italia, si può ragionevolmente affermare che la Massoneria bresciana non sia stata interessata al fenomeno se non in forma assolutamente irrilevante.

I bresciani nell’elenco ritrovato della P2 sono cinque: Cordiano Fausto, Folonari Marco, Frau Aventino, Montanaro Giuseppe e Pedini Mario.

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MONTESI Santo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Era Apprendista nel 1807 (Inaugurazione dello stendardo della LØž del GØž 2. del MØž 8. Dell’anno della VØž LØž 5807, p. XI).

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Santo Montesi non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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MONTI (?)

(?)

Sospetto Massone nel 1820-1822

«Monti. Aggiunto alla Pretura di Salò - Salò. Il Commissario di Polizia locale lo indica Massone, e di nessun a ttaccamento al Governo». (Annibale Alberti, in Regio Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Elenchi di compromessi o sospettati politici 1820 – 1822, parte I, p. 41, n. 120).

 

 

MONTI Vincenzo

(1754 - 1828)

Membro onorario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 53).

Il poeta aulico.

Nacque ad Alfonsine (Ravenna) il 19 febbraio 1754. È stato un poetascrittoretraduttoredrammaturgo e accademico italiano.

Viene comunemente ritenuto l’esponente per eccellenza del Neoclassicismo italiano, sebbene la sua produzione abbia conosciuto stili mutevoli e sia stata a tratti addirittura vicina alla sensibilità romantica.

Principalmente ricordato per la notissima traduzione dell’Iliade, fu al servizio sia della corte papale che di quella napoleonica, ed infine fu vicino agli austriaci dopo il Congresso di Vienna, manifestando spesso diversi cambi di visione politica e religiosa, anche repentini e radicali (ad esempio da reazionario a illuminista nel periodo rivoluzionario del 1793-1794), sia per l’entusiasmo del momento che per motivi di opportunità; pur riconoscendo il suo costante patriottismo di fondo, fu per questo definito da Francesco de Sanctis “segretario dell’opinione dominante” e ricevette critiche dal FØž Foscolo e Leopardi, sebbene dai più considerato tecnicamente un abile verseggiatore e traduttore, lodato anche da autori come i FFØž StendhalCarducciAlfieri (Wikypedia.

Nel marzo 1797 lasciò Roma per affiancarsi a Napoleone. Pubblicò scritti di ritrattazione dei versi precedenti, in chiave razionalistica, antipapale, filofrancese... Si iscrisse alla Massoneria, Il 5 ottobre 1806, giorno in cui è ufficialmente costituita la loggia massonica Reale Eugenio a Milano, Vincenzo Monti vi recita la cantata L’Asilo della Verità (Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi muratori, Roma-Milano, 2005, p. 191.)

Nel 1810-11 difese il nipote Giuseppe, figlio del fratello Francesco Antonio, implicato nel processo a una società segreta antinapoleonica, costituitasi a Lugo: la difesa, vittoriosa, fu affidata alle capacità tecniche e alle amicizie massoniche di Pellegrino Rossi.

Le sue opere con interessanti spunti in chiave esoterica si ritrovano nelle analisi compiute sulla Lettera a Piranesi, sul Prometeo, sui Pittagorici.  (Giuseppe Izzi, Dizionario Biografico degli Italiani – Treccani, ad vocem, Volume 76, 2012). Nella canzone petrarchesca Per il congresso di Udine, del 1797, si accenna al “triangolo immortale”; l’Asilo della verità, come detto prima, è una cantata massonica e I Pitagorici è un dramma allegorico, con spunti presi dal “Viaggio di Platone in Italia” del Cuoco, musicato da Paisiello, dedicato a Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e capo della massoneria napoletana ed ha simbolismi massonici.  Il Fanatismo, La superstizione, Il pericolo sono tre poemetti anticattolici ed antimonarchici, ma non atei (vi si manifesta piuttosto deismo illuministico, filomassoneria, anglofobia e filobonapartismo). Ma, più di questi scritti, gli fu d’aiuto l’amicizia con i FFØž generale Marmont e Ugo Foscolo.

Vincenzo Monti, dopo aver ricevuto la nomina di socio dell’Ateneo di Brescia, ringraziava cordialmente Gaetano Fornasini (1770 – 1830, amico del FØž Ugo Foscolo) “per la gran parte” che egli aveva avuta “per sola cortesia sua nella dispensazione di questo onore”. Gli stessi rapporti amichevoli esistevano col Cesari, col Niccolini, con i FFØž di Loggia l’abate Antonio Bianchi, Francesco Filos, Camillo Ugoni, Luigi Lechi, Ferdinando che furono tutti appartenenti alla Regia Loggia Amalia Augusta e, più o meno intensamente, legati anche al FØž Foscolo. Non va dimenticato che il FØž Vincenzo ebbe la fortuna di vivere in una città dove la cultura aveva trovato, sia nelle numerose Accademie, specialmente quella degli Erranti e la Cenomana (nome che sarà riservato ad una futura Loggia bresciana), inaugurata da un Crescimbeni, sia nei salotti letterari come quelli di un G.M. Mazzuchelli, di una Solar d’Asti Fenaroli, di una Bianca della Somaglia Uggeri, di un Carlo Roncalli Parolino, i due ultimi suoi preziosi e solleciti amici quando si era trovato in difficoltà varie, un centro culturale particolarmente adatto per realizzare il suo sogno. Né si può ignorare che la cultura classica facente capo a Vincenzo Monti ebbe tra i bresciani numerosi ammiratori e seguaci convinti.

Passò all’OrØž Eterno a Milano il 13 ottobre 1828 all’età di 74 anni.

 

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MORETTI Silvio

(1772 - 1832)

Affiliato alla Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 53 e 360).

Nacque 17 luglio 1772 a Comero in Val Sabbia.

Ex prete, patriota e soldato, morto prigioniero nello Spielberg.

Figlio di Silvestro Moretti, un piccolo possidente allevatore di ovini, e da Anna Maria Pilotelli; fu battezzato col nome di Silvestro Antonio, «che forse riteneva per lui alcun che di sacerdotale» (De Castro, 1896, p. 5), assunse quello di Silvio all’inizio della carriera militare. Compiuti gli studi di teologia nel seminario di Brescia, il 4 marzo 1797 fu ordinato sacerdote. Andò come coadiutore a Costino, in Val Trompia, fu di quelli che nel contado bresciano tentarono di opporsi alle innovazioni democratiche divulgate con l’occupazione francese, Moretti depose l’abito talare e imbracciò il fucile per correre a combattere contro gli invasori; in uno scontro, al quale partecipò, contro un corpo di Bresciani e di Francesi comandati dal Landrieux, fu ferito e fatto prigioniero.

Sennonché, giunto a Brescia, lasciò l’abito talare e ottenne dal governo provvisorio bresciano il servizio di sottotenente nelle milizie bresciane agli ordini del FØž Giuseppe Lechi (Joseph), col quale prese parte ad operazioni di guerra, passando con lui nel dicembre 1797 al servizio della neonata Repubblica Cisalpina.

Si mise subito in mostra come elemento di indubbio valore e, quando ebbe luogo la controffensiva austro-russa, seguì Lechi, che si era unito alle truppe del generale Bonaparte e aveva costituito la Legione italiana. Invasa la Cisalpina (1799) dagli Austro-russi, riparò in Francia, e tornato in Italia (1800) con la legione comandata dal FØž Teodoro Lechi, fu presente a Marengo, dove si guadagnò il grado di Capitano.

Fu aggregato il 4 aprile 1804 alla guardia del presidente della Repubblica Italiana, l’anno dopo passò nel corpo dei veliti reali e combatté ad Austerlitz (2 dicembre 1805). Promosso capo battaglione, fece nel 1809 la campagna contro l’Austria come capo-battaglione della 4a divisione dell’armata d’Italia, sempre comandata dal generale FØž Teodoro Lechi, con il quale prese parte alle battaglie di Illasi, Raab e Wagram. Nel 1812 la spedizione in Russia e nel 1813 la campagna di Germania, che per lui si concluse con un encomio solenne per aver preso parte a vari combattimenti distinguendosi in quello di Lützen.

Dopo la caduta di Napoleone passò al servizio militare austriaco nel II battaglione leggero austro-italiano, avvento che non significò per il FØž Moretti e per molti dei suoi commilitoni una rinunzia al proprio passato, anzi si affiliò alla società segreta dei Centri. Il colonnello FØž Moretti, con alcuni ex ufficiali della guardia reale, in particolare con il colonnello Gian Paolo Olini e con il generale FØž Teodoro Lechi, fu promotore della congiura militare-massonica del 19 maggio 1814 per la formazione di un grande regno italiano, fallita sul nascere per la delazione di una spia francese al servizio degli Austriaci.

Alla scoperta della congiura vi furono indagini, perquisizioni e alcuni processi: arrestato il 7 gennaio 1815, per delazione di certo Saint-Agnan, mentre si trovava a Graz, dove era stato destinato dopo l’arruolamento nell’esercito austriaco, tradotto a Mantova e portato un mese dopo davanti a una speciale commissione militare.

Il 18 novembre 1815 Moretti fu condannato a morte mediante impiccagione, pena poi commutata in otto anni di detenzione in fortezza e ridotta infine a quattro anni (di cui due già scontati) per buona condotta. I restanti due anni li passò nella fortezza di Koeniggratz, in Boemia (Mario Meneghini, Enciclopedia Italiana, Treccani, 1934, ad vocem e Giuseppe Monsagrati, Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 76, 2012, ad vocem).

Quando tornò in patria la polizia austriaca non smise di sorvegliarlo, malgrado avesse cambiato residenza stabilendosi nel comune di Sabbio e avesse trovato un impiego in apparenza tranquillo come collaboratore (nonché titolare di una quota azionaria) dell’editore FØž Nicolò Bettoni (vedi), per il quale tradusse dal tedesco e pubblicò tra il 1821 e il 1822 i cinque volumi di un trattato sulle passioni del filosofo e FØž Johann Georg Heinrich Feder (membro della Loggia massonica Auguste alle tre fiamme a Gottinga dal 1782 )che nella versione italiana fu intitolato Ricerche analitiche sul cuore umano (Brescia): era evidentemente un tema che il FØž Silvio, personaggio quasi stendhaliano, sentiva molto (Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal fu anch’egli FØž massone nella Loggia parigina “Sainte-Caroline”).

Sempre per il FØž Bettoni stava lavorando alla traduzione di alcune opere teatrali di August von Kotzebue quando incappò nel secondo arresto della sua vita, la notte dal 12 al 13 luglio 1822. A portarlo in carcere, e questa volta definitivamente, furono l’affiliazione, per le confessioni del Ducco, alla società dei Federati facente capo al conte Federico Confalonieri e la parte avuta nella preparazione di un progetto insurrezionale studiato per fornire il contributo dei cospiratori bresciani alla presenza lombarda nel coevo moto costituzionale piemontese.

Durante i lunghi interrogatori sostenuti a Milano, tenne un contegno ammirevole, negando sempre anche nei confronti con Ludovico Ducco e con altri, scesi invece a rivelazioni. Con sentenza del 14 luglio 1824 fu condannato, non con prove ma confessioni, a quindici anni di carcere duro da scontare allo Spielberg.

Mentre lo trasportavano a Milano, il FØž Moretti tentò il suicidio tagliandosi la gola con un coltellino sfuggito alla perquisizione: soccorso, negò di essersi colpito, forse temendo che il suo gesto potesse apparire come un’ammissione di colpevolezza. Sin dai primi interrogatori gli furono contestate le rivelazioni a suo carico degli altri inquisiti: ciò non lo indusse a cambiare la linea difensiva che fin dall’inizio consistette nel negare ogni addebito, sapendo che, per una precisa disposizione del codice penale austriaco, era questo l’unico modo per evitare la pena capitale. Perfino un uomo come Salvotti fu impressionato dalla sua fermezza e dalle parole con cui Moretti rivendicò la bontà della sua strategia spiegandogli che «quando si entra in una congiura bisogna essere disposti a morire per la causa che si abbraccia e che se tutti avessero osservato il suo sistema sarebbero stati tutti salvi» (Luzio, 1901, p. 138). Forte di questa certezza resistette a lusinghe e minacce, passò indenne tra l’ottobre 1822 e il maggio 1824 per otto costituti e il 1° febbraio 1823 superò brillantemente, continuando a proclamarsi innocente, anche il confronto con i suoi accusatori, alcuni dei quali ritrattarono almeno in parte.

Come aveva previsto, riconosciuto comunque reo di alto tradimento, non sfuggì alla condanna a 15 anni di carcere duro e al pagamento delle spese processuali, ma scampò alla forca. Da notare che Salvotti aveva chiesto per lui venti anni, il massimo della pena, usando come aggravante anche «la sua irreligiosità sfacciata, il disprezzo che spiega contro la Sacrosanta nostra Religione, e il suo sacerdotal carattere» (Solitro, 1910, p. 110); e la sentenza tenne conto anche di questo addebito specificando che la pena inflitta a Moretti andava scontata «previo accordo con la Curia di Brescia per la degradazione» (Storia di Brescia, 1964, p. 148). Più tardi, la Penitenzieria romana gli avrebbe fatto sapere tramite il confessore dei detenuti che gli era stata accordata l’assoluzione.

La sentenza divenne esecutiva dopo che l’imperatore Francesco I l’ebbe confermata il 27 ottobre 1824, destinando Moretti allo Spielberg. Vi arrivò, già logoro nel fisico e nello spirito, nei primi giorni del dicembre 1824 e subito ne patì le durezze.

Ad aggravare la condizione carceraria contribuirono i maltrattamenti psicologici procuratigli da un confessore, don S. Pavlovich-Lucich; l’incompatibilità caratteriale con quasi tutti gli altri detenuti, tra i quali inizialmente il solo Alexandre Andryane fu un compagno di cella con cui andò d’accordo; la sordità delle autorità e dell’imperatore a tutte le richieste, sue e dei parenti, di revisione del processo (l’ultima di cui si abbia notizia, del 1829, fu respinta il 4 aprile 1830); le umiliazioni morali riservategli da un sistema afflittivo che aveva come obiettivo la spersonalizzazione del reo e non il suo recupero.

Inascoltati rimasero pertanto i due memoriali che Moretti scrisse nel 1825 e nel 1830, come inutile fu il colloquio che ottenne con il governatore di Brünn per chiedere la libertà, promettendo collaborazione per il futuro: caduto in uno stato di semi-alienazione mentale, non fu preso sul serio. La compagnia di un nuovo detenuto, Giovanni Bacchiega, lo aiutò a risollevarsi moralmente, ma ormai il suo organismo era troppo provato.

Passò all’OrØž Eterno alla fortezzo dello Spielberg (Brno) il 21 agosto 1832 all’età di 60 anni.

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