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Alchimia

Lezione 8

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  I Tesori dell'Alchimia
 

​  Rarissimi codici alchemici che rappresentano un sorprendente panorama di "bibbie" che fecero la storia dell'Alchimia.

Libri che si proponevano di aiutare gli Iniziati all'Arte Reale per separare gli elementi e condurre attraverso una storia di sperimentazioni pre-scientifiche ed intuizione, filosofia ed empiria. Sono testi oggi "alla portata di tutti e  tutti potranno sapere tutto", ma in realtà la loro lettura è un sapere senza valore, attraverso la lettura non si impara nulla, è solo un'illusione. La vera Conoscenza è solo quella che con fatica si acquisisce sperimentando con la propria vita, con più scarsi risultati e con maggior fatica se si è solitari ricercatori e con molta fatica ma più possibilità di riuscire se si è discepoli di un Maestro che aiuta a comprendere. La vera conoscenza, la Verità che si ricerca, non è stampata sui libri, ancorché mirabilmente illustrati dalle allegorie delle miniature, ma è quella che si va ad incidere nell'anima di chi apprende, solo ciò che è inciso nell'anima si comprende realmente. 

  La consultazione di questi testi, solitamente custoditi gelosamente ed inaccessibili, ci permette di confrontare quali temi influenzarono maggiormente gli autori o quali simboli si ripeterono di più su queste antiche pagine. Questi codici mostrano un denominatore comune, sia nelle simbologie, sia nei significati che l'alchimista dette ai volumi che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto tramandare alla posterità le sue scoperte.

 

  Vittorio Di Cesare, storico, giornalista, scrittore e docente universitario, ci spiega esaurientemente il tema della gnosi alchemica ed un breve  "excursus" storico. Gli antenati dell'Alchimia e in generale dell'esoterismo furono i sacerdoti egizi, i primi a comporre e collezionare testi misteriosi nei quali, dicevano, era riposta la scienza degli dei. La leggenda vuole che il fondatore dell'Alchimia egiziana fosse il dio Thot, chiamato Ermes-Thoth o Ermes il tre volte grande - Ermete Trismegisto dai Greci, Mercurius ter Maximus in latino. Secondo la leggenda il dio avrebbe scritto i quarantadue libri della conoscenza, che avrebbero coperto tutti i campi dello scibile, fra cui anche l'Alchimia. Il simbolo di Ermes era il caduceo, che divenne uno dei principali simboli alchemici. È un personaggio leggendario di età pre-classica, venerato come maestro di sapienza e tradizionalmente ritenuto l'autore del Corpus Hermeticum (raccolta di trattati tra cui anche il Pimandro e l'Asclepio). A lui è attribuita la fondazione della corrente filosofica nota come ermetismo. La Tavola di smeraldo smeraldina (in latino tabula smaragdina) di Ermete Trismegistuo, che è nota solamente attraverso traduzioni greche ed arabe, è generalmente considerata la base per la pratica e la filosofia alchemica occidentale, è un testo sapienziale che secondo la leggenda sarebbe stato ritrovato in Egitto, prima dell'era cristiana, il testo era inciso su una lastra di smeraldo ed è stato tradotto dall'arabo al latino nel 1250 e apparve per la prima volta in versione stampata nel De Alchemia di Johannes Patricius nel 1541.

  La città di Alessandria in Egitto fu un centro di conoscenza alchemica, e conservò la propria preminenza fino al declino della cultura egiziana antica. Sfortunatamente non esistono documenti originali egizi sull'Alchimia. Nel 297 e 298 e.v.,  Diocleziano sedò a più riprese le ribellioni egizie e per punirli bruciò tutti  i loro libri di "chimica", ritenendoli una minaccia al suo potere. Quegli scritti alchemici che non furono distrutti allora, andarono forse perduti prima o dopo quelle date, nei numerosi incendi della Biblioteca di Alessandria. Fonti antiche e moderne identificano quattro possibili occasioni dove sarebbe potuta accadere una distruzione parziale o totale della Biblioteca: l'incendio del 48 a.C. di Giulio Cesare; l'attacco di Aureliano intorno al 270 d.C.; il decreto di Teodosio I del 391 d.C.; la conquista araba del 642 d.C.

 

  L'alchimia egiziana è per lo più conosciuta attraverso le opere di antichi filosofi greci, sopravvissute solamente in traduzioni islamiche.

  

  Il testo della "Stele di Metternich" (datata attorno al attorno al 380-342 a.C., durante il regno di Nectanebo II della XXX dinastia egizia), il "Sacro Occhio di Udjiat" (l'Occhio di Horus, 'Udjat' era il termine che indicava gli amuleti con il disegno dell'occhio di Horo; nel "Libro dei Morti" viene indicato come attributo caratteristico di tutte le diverse forme di divinità suprema, femminile o maschile che sia) o il "Libro delle Respirazioni" (testo ieratico, una forma di scrittura in corsivo che si trova nei sarcofagi, che illustra “l’Amduat, il viaggio notturno del Dio Sole”  e che precedentemente era raffigurato sulle pareti delle tombe ed attiene al rituale dell’apertura della bocca, il momento in cui un sacerdote, perpetrava il rituale dell’apertura della bocca della mummia in modo che il defunto potesse tornare a respirare, a vivere, a fruire delle offerte nell’aldilà).

 

Questi testi sono difatti gli antenati diretti dei codici alchemici successivi. Spesso dei tanti testi egizi non si sa neppure il nome dell'autore e la loro scoperta a volte è del tutto fortuita, come il "Papiro di Iside" trovato per caso a Coptos, che rassomiglia al ritrovamento casuale nel '700 del codice alchemico "Picatrix" in un albergo francese.

 

Il "Papiro di Leida" (chiamato Papiro dieci e conservato a Leida in Olanda, è un codice scritto su papiro in lingua greca alla fine del III secolo e.v. e rinvenuto nel sito archeologico di Tebe) o anche il "Papiro di Holmiense Stoccolma" (anch'esso scoperto a Tebe insieme al papiro di Leida nel 1828 e ora a Stoccolma), entrambi del 300 e.v. sono gli antenati dei successivi testi alchemici che con Zosimo di Panopoli (lo scopritore dell'alambicco, fu il primo che scrisse opere alchemiche in modo sistematico e firmando la propria opera), con Sinesio di Cirene e Olimpiodoro di Tebe, alchimisti vissuti tra il II e il IV secolo e.v., diffonderanno a Bisanzio e nel mondo arabo le realtà dell'Alchimia.

Sinesio (in latino: Synesius, 370-413) è stato vescovo e filosofo, scrittore greco anticoneoplatonico, discepolo di Ipazia; si ricorda un suo lavoro sull'Alchimia sotto forma di commento allo pseudo-Democrito ed un trattato sulla costruzione di un astrolabio.

Olimpiodoro  (in latino: Olympiodorus, 412 o 425 – ?) è stato prima di tutto uno storico romano, poi visse alla corte di Teodosio II, ma è anche ricordato come Alchimista, un suo trattato di Alchimia è conservato alla Bibliothèque nationale de France a Parigi.

  Maria la Giudea, anche conosciuta come Maria Prophetissima, Maria Prophetissa, Miriam la Profetessa, Maria d'Alessandria, è stata una filosofa ed alchimista, che si ritiene sia vissuta nei territori dell'Impero Romano orientale, probabilmente ad Alessandria d'Egitto, tra il primo ed il terzo secolo e.v. A lei viene attribuita l'invenzione di diversi apparati chimici ed alchemici e viene considerata la prima alchimista nella storia dell'Occidente a non essere una figura inventata. Maria scrisse diversi libri di alchimia. Sebbene nessuno dei suoi lavori sia sopravvissuto nella loro forma originale, i suoi insegnamenti furono citati doviziosamente da autori ermetici successivi. Lo scritto principale che è sopravvissuto è un estratto fatto da un anonimo filosofo cristiano, chiamato "Il dialogo fra Maria e Aros" sul magistero di Hermes, in cui sono descritte e definite molte operazioni che saranno in seguito la base dell'alchimia, come la leukosis (sbiancamento) e xanthosis (ingiallimento). La prima si raggiunge attraverso la macinazione, la seconda attraverso la calcinazione. Diversi aforismi ermetici dell'alchimia sono stati attribuiti a Maria Profetessa. Si dice che abbia parlato dell'unione degli opposti: "unisci il maschile e il femminile e troverai quello che si cerca". Un altro motto è chiamato assioma di Maria: "L'Uno diventa Due, i Due diventano Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l'Unità" (da Psicologia e Alchimia di Carl Gustav Jung - ed. Bollati Boringhieri - pag. 27, lo psicologo Carl Gustav Jung adoperò il motto come una metafora del processo di individuazione).

  Ecco dunque giungere sulle pagine della maggior parte dei codici alchemici simboli particolari come il drago che si morde la coda, (raffigurato nel "Museum Hermeticum" che è un trattato che esce in Germania nel 1625 e che riunisce una serie di scritti in latino tradotti dal tedesco), in cui si riconosce uno dei temi dominanti della Gnosi, che da movimento filosofico nato in Egitto si diffuse dal I al IV secolo dopo Cristo in Oriente ed in Europa, che si prefiggeva di riunire i contrari bene-male della natura umana, indicando questa operazione con il dragone preso dagli alchimisti per raffigurare il mercurio filosofale, a sua volta composto da due contrari.

  Da questo momento la storia dell'Alchimia andrà di pari passo con la storia dei suoi codici. 

  Nonostante tutto dall'VIII secolo in poi i codici alchemici si diffusero notevolmente, un po' per merito del monaco maestro Morieno Romano Morienus Romanus e il suo "Liber de compositione alchimiae" (tradotto dall'arabo in latino nel 1144 da Roberto di Chester, in latino Robertus Castrensis, vedi dopo), un po' grazie al suo discepolo Khalid ibn Yazid (morto ca. nel 704, figlio del califfo omayyade Yazid), il quale introdusse nel mondo arabo questa scienza, facendo tradurre in arabo dal greco molti trattati alchemici da eruditi cristiani d'Egitto (qual'era anche Morienus); in questi libri viene citato anche un trattato di Zosimo. Si attribuiscono a Khalid diversi poemi e scritti alchemici: "Il libro degli amuleti", Il grande e il piccolo libro del rotolo", "Il libro del testamento sull'arte" e il celebre "Paradiso della saggezza" che conteneva 2315 versi.

  Di Artefio si sa poco o nulla, non sono reperibili notizie biografiche e certa è solo la sua collocazione nel periodo che intercorre tra il tempo in cui visse Adfar, maestro di Morieno, e quello di Ruggero Bacone, infatti, quest'ultimo nomina Artefio nel suo « Opus Majus ad Clementem IV», mentre Adfar è certamente precedente ad Artefio, che lo cita nel «De lapide philosophorum liber secretus». Hoefer, nella sua «Historia de la chimie», pensa che si possa considerarlo contemporaneo di Morieno e Khalid. Artefio nel «Liber secretus» rivela che, grazie a Dio e ad una meravigliosa quintessenza da lui elaborata, egli ha raggiunto l'età di mille anni, e che, sentendo che la sua vita sta volgendo al termine, ritiene sia giusto rivelare tutto quanto ha appreso sulla pietra filosofale: «Ho scritto quindi - dice - in questo libro la verità nuda». E Giovanni Pontano, più tardi, confermerà che Artefio è l'unico, tra centinaia di altri, ad esporre chiaramente la verità, senza inganno alcuno. Null'altro si sa di questo Alchimista, sotto il cui nome ci sono giunte due opere: il citato «Liber secretus» e «Clavis majoris sapientiae», in cui si tratta della generazione dei metalli accostata a quella dei vegetali e rapportata all'influenza degli astri. É certa la grande considerazione in cui sono state tenute sempre le sue parole, ritenuto da tutti gli Alchimisti successivi uno dei più attendibili Maestri dell'Opera; dal Liber secretus: “Non è forse anche quest’arte Cabalistica? Piena di Arcani? E tu, sciocco, credi che insegniamo apertamente gli arcani degli arcani, e prendi le parole secondo il suono delle parole?” Il Libro Segreto dell'antichissimo Filosofo Artefio è uno dei testi più conosciuti e misteriosi d'Alchimia. "

 

  A Geber (Jabir ibn Hayyan al-Azdī, latinizzato in Geberus), che è conosciuto come il più grande alchimista arabo medioevale, sicuramente dell' VIII secolo e.v., si attribuirono tanti manoscritti quanti non ne scrisse mai; come ad esempio furono quelli scritti da colui che oggi noi chiamiamo Pseudo-Geber (cioè falso Geber) nome assegnato in tempi moderni ad un anonimo alchimista europeo del XIII secolo, che scrisse libri di alchimia e metallurgia in latino, appunto sotto la pseudonimo di "Geber".  Il vero Jabir scrisse per il califfo di Bagdad, Harun al Rashid (quello delle Mille e una notte), un libro di alchimia intitolato "Il libro di Venere" e favorì l'importazione alla sua corte di testi greci da Bisanzio. Costituiscono il nucleo fondamentale del corpus di Jabir "I cento dodici libri", "I settanta libri", "I dieci libri di rettifiche" e "I quattro libri delle bilance" ; i primi due si basano sulla celebre "Tabula smaragdina", di cui le prime versioni a noi pervenute sono in arabo e verrà in seguito largamente diffuso in latino in Occidente; il secondo gruppo di testi verrà tradotto in latino da Gerardo da Cremona solo nel XII secolo; il terzo gruppo di testi raccoglie i contributi all'Arte Reale di Pitagora, Socrate, Platone e Aristotele, che qui figurano come Alchimisti; l'ultimo gruppo espone la teoria della bilancia, uno stato di equilibrio fra le diverse "nature" dei metalli, determinando numericamente l'equilibrio dell'oro, metallo perfetto, al fine di ottenere un equilibrio simile nei metalli vili.

  Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā al-Rāzī, noto anche col nome di al-Razi, o ar-Razi, o Ibn Zakariyya e in latino col nome di Rhazes o Rasis (854930), è stato un grande medicoscienziato pluridisciplinare persiano che ha fornito importanti contributi in ambito medicochimico e filosofico. Riconosciuto come il migliore medico dei suoi tempi per aver pienamente compreso e messo in pratica le conoscenze mediche greche. Ha scritto manuali medici ad uso popolare e fece scoperte rilevanti. È tuttora considerato uno dei più grandi alchimisti di ogni tempo, e i suoi lavori e scritti sono rimasti in uso per più di dieci secoli. Scoprì l'impiego dell'alcool in medicina e fu il primo a preparare acido solforico. Al-Rāzī scrisse 184 libri e articoli su diversi argomenti scientifici. Le fonti dell'alchimia prendono origine dal Corpus Ermeticus e i suoi studi furono documentati circa mezzo secolo dopo la sua morte nel testo di Ibn al-Nadīm Le pietre dei filosofi (Lapis Philosophorum in latino). Ibn al-Nadīm ha attribuito una serie di dodici libri ad al-Rāzī, più i sette supplementari, compresa la sua confutazione alle tesi di al-Kindī riguardanti le critiche alla validità dell'alchimia. Le qualità empiriche di tipo alchimistico sviluppate ad al-Rāzī furono i concetti di salinità e infiammabilità (ovvero carattere untuoso e carattere solforoso); queste proprietà non rientravano nella concezione tradizionale dei quattro elementi fuoco, acqua, terra e aria, universalmente accettati in quel periodo, e questo indica quanto fosse critico ed autonomo il pensiero di al-Rāzī. I due testi alchemici i più noti di al-Rāzī sono: "al-Asrār" tradotto "I Segreti" e "Sirr al-Asrār" tradotto "Il Segreto dei Segreti".

  Dopo essere caduta in disuso durante l'alto Medioevo, l'Occidente riprese contatto con la tradizione alchemica greca attraverso gli Arabi. L'Alchimia tornò in Europa per iniziativa dei pirati moreschi e barbareschi che sbarcavano sulle coste mediterranee e per merito degli arabi di al-Andalus, la Spagna islamica.  Lo sappiamo grazie a trascrizioni, traduzioni e alle infinite citazioni degli autori successivi che ce li hanno tramandati. L'incontro tra la cultura alchemica araba ed il mondo latino avviene come riconosciuto per la prima volta ad opera dello spagnolo Gerbèrto di Aurillac, che più tardi divenne Papa Silvestro II, (morto nel 1003) definito il papa mago.

 

  Nel XII secolo va ricordata la figura del più importante dei traduttori di opere arabe, Gerardo da Cremona, che interpretò Averroè e alcune opere di Razes e Geberus. L'Alchimia medievale occidentale fu, per almeno un secolo, esclusivamente il recupero e l'assimilazione di testi arabi. I vocaboli arabi sono rintracciabili tuttora nelle dottrine alchemiche e nell'etimologia dei termini del laboratorio: alambicco, alcool, matraccio, elisir, álcali, nafta, lo stesso vocabolo alchimia (al-kimiya) sono di diretta provenienza araba.

  Solo verso il XIII secolo avrà inizio una letteratura esoterica autonoma occidentale, che fisserà i capisaldi della filosofia alchemica in Europa. A quel secolo risalgono i primi Alchimisti medievali di cui abbiamo notizie certe.

 

  Nel XIII secolo, epoca d'oro dell'Alchimia, gli stessi ecclesiastici scoprirono questa dottrina facendosi carico di traduzioni molto originali. Roberto di Chester (arcidiacono di Pamplona), i frati domenicani Alberto Magno e il suo discepolo Tommaso d'Aquino, come altri religiosi ancora più famosi, il sacerdote Petrus Hispanius che diverrà papa, i frati francescani Ruggero Bacone, Fra' Elia, successore di San Francesco, il bresciano Fra' Bonaventura da Iseo e tanti altri, questionando d'alambicchi in odor di zolfo riuscirono a rendere l'Alchimia meno sospetta, salvandola dai roghi dell'Inquisizione, che più avanti nel tempo saranno accesi in tutta l'Europa. La data del 11 febbraio 1144, come prima ricordato, segna la ri-nascita dell'Alchimia, in quel giorno Roberto di Chester finì la traduzione in latino dell'arabo de "II libro della composizione di alchimia" o "Liber de compositione alchimiae".

  Bonaventura da Iseo, (... – 1250) è stato un frate francescano e Alchimista italiano. Rivestì un ruolo importante nell'ordine come fiduciario di Elia da Cortona e successivamente di Crescenzio da Jesi, del quale fu vicario presso il Concilio di Lione del 1245. Fu ministro per alcune province francescane, fra cui la marca trevigiana all'epoca di Ezzelino da Romano. È tradizionalmente considerato l'autore del "Liber compostille", un compendio del sapere alchemico dell'epoca (compostile vuol dire schedario). L'opera documenta la diffusione dell'Alchimia nell'Ordine francescano. All'interno del contesto alchemico, il trattato introduce il legame fra sostanze alchemiche e acque medicinali, anticipando così gli sviluppi seguenti di Ruggero Bacone, peraltro anche lui francescano ed influenzò molto le ricerche alchemiche di  fra' Elia.

  Elia da Cortona, (Elias Bonusbaro o Buonbarone, 1178 –  1253), frate francescano e politico italiano, molto vicino a san Francesco, del quale era stato uno dei primi seguaci e suo successore. Dedito a pratiche alchemiche per l'influenza profonda di Bonaventura da Iseo (altro frate francescano Alchimista bresciano), gli è attribuita la stesura di alcuni trattati in lingua latina sull'argomento, tra cui il "Lumen luminum". Fu scomunicato per la sua vicinanza con l'Imperatore Federico II e i tentativi purtroppo falliti portati per la riconciliazione tra papato e impero. Nel periodo in cui fu parte della cerchia sveva, scrisse alcune opere alchemiche, tra cui anche il citato trattato in sei libri, dal titolo "Lumen luminum", ispirato al Libro degli allumi e dei sali e ai formulari del "Corpus hermeticum" di Ermete Trismegisto, lo stesso retroterra di fonti a cui si era rifatto Michele Scoto, altro alchimista della corte federiciana.  L'opera sarebbe stata composta presso la corte imperiale, quindi dopo la deposizione dal vertice dell'ordine nel 1239. A frate Elia è attribuito un trattato perduto a cui fa riferimento il Crescimbeni, poi un "Vade mecum" in linguaggio ermetico, un "De Secretis Naturis", ed alcuni poemetti in volgare, in cui si allude a pratiche metallurgiche per produrre la pietra filosofale, come il celebre sonetto Solve et coagula.

 

  Alberto Magno (1206-1280), Doctor Universalis, frate domenicano tedesco, vescovo e filosofo, affronta la tematica alchemica nel "De mirabilibus mundi" e nel "Liber de Alchemia" o "De Alchimia", però di incerta attribuzione. Ad Alberto sono attribuiti numerosi altri scritti alchemici come il "Secretorum tractatus ex arte aurífera", "Semita recta", "Alkimia minor".

  Tommaso d'Aquino (1225-1274), Doctor Angelicus, frate domenicano italiano, a lui vengono attribuiti alcuni opuscoli alchemici, nei quali è dichiarata la possibilità della produzione dell'oro e dell'argento. Il trattato "Aurora consurgens", che in latino significa «Aurora nascente», è il titolo di alcuni trattati alchemici, il più celebre dei quali è un manoscritto miniato del XV secolo, giunto fino a noi in varie versioni e il cui contenuto è attribuito a Tommaso d'Aquino, anche se secondo alcuni il suo autore andrebbe riportato come pseudo-Aquino; l'opera conosciuta è stata manoscritta due secoli dopo la presunta stesura in epoca medioevale di Tommaso d'Aquino e contiene 38 miniature fini in acquerello, piuttosto insolite per un lavoro di questo genere. L'Aquinate si interessò in diverse occasioni e in opere importanti dell'arte alchemica, che riteneva non solo possibile, ma anche lecita. Del resto, è fuori di dubbio che il Doctor Angelicus studiò la Grande Opera; in alcuni suoi libri certamente autentici, l'Aquinate cita più volte Alchimia e con toni tutt'altro che derisori. Nell'opera In IV libri "Meteorologicorum expositio" Tommaso considera reale l'Alchimia, anche se difficile, e dimostra di conoscere l'intima natura delle trasmutazioni metalliche. Due suoi brevi trattati in cui sono dettagliatamente descritte le diverse fasi della realizzazione della pietra filosofale sono nel "Trattato della pietra filosofale"; questo libro contiene due operette alchemiche attribuite a Tommaso: "De lapide philosophico" e "Tractatus D. Thomae de Aquino datus fratri Reinaldo in arte Alchemiae"; di quest'ultimo esistono manoscritti a partire dal XV secolo. I due trattatelli sono tradizionalmente considerati assieme, da quando nel 1613 furono pubblicati uno di seguito all'altro nel "Theatrum Chemicum" dello Zetzner, una ricca raccolta di dassici della letteratura alchemica. La prima edizione a stampa del "De lapide philosophico" (ma non integrale) apparve a Venezia nel 1488, all'interno del De esse et essentia mineralium". Il "Tractatus datus fratri Reinaldo" apparve nel 1579 a Colonia, nel volume "Thomae Aquinatis secreta alchemiae".

 

  Petrus Hispanius (o Pedro Julião detto Petrus Iuliani o Pietro di Giuliano o Pietro Ispano), (1210 ca.-1277), sacerdote portoghese, medico, diventerà papa Giovanni XXI e sarà l'unico lodato apertamente da Dante nel Paradiso della Divina Commedia. Oltre ai trattati di medicina, altre opere di materia naturale notoriamente alchimistiche sono attribuite a Pietro Ispano, anche se non è stato accertato che ne sia il vero autore.

 

  Ruggero Bacone (o Roger Bacon, 1214 ca.-1294), Doctor Mirabilis,  frate francescano inglese, deve essere considerato il primo vero alchimista dell'Europa medievale che, oltre gli studi alchemici, esplorò i campi dell'ottica e della linguistica. Le sue opere, il "Breve Breviarium", il "Tractatus trium verborum" e lo "Speculum Alchimiae", oltre ai numerosi pseudo-epigrafi a lui attribuiti, furono utilizzate dagli alchimisti dal XV al XIX secolo. "De secretis operibus artis et naturae" parla diffusamente dell'«uovo filosofico» (uno dei tanti sinonimi della Pietra Filosofale) e di come realizzarlo.

 Alla fine del XIII secolo l'alchimia si sviluppò in un sistema strutturato di credenze, grazie anche al "Rosarium philosophorum" 0 "Rosario dei Filosofi", erroneamente attribuito a Arnaldo da Villanova, ma in realtà di autore anonimo della fine del XIV secolo, e soprattutto con le opere apocrife in materia attribuite a Raimondo Lullo, che divenne presto una leggenda per la sua presunta abilità alchemica.

 

  Arnaldo da Villanova (ca. 1240-1312 1313), è stato alchimista, medico e scrittore di opere a tema religioso in catalano del XIV secolo. Culturalmente molto vicino al francescanesimo spirituale, fu influente nelle corti europee, consigliere del re d'Aragona, del papa e del re di Sicilia. Subito dopo la sua morte, la sua personalità e studi gli conferirono fama di alchimista e mago. Gli sono state attribuite molte opere alchemiche (forse un elenco di 52 titoli), ma nessuna di queste opere gli può essere attribuita con certezza: "Flos Florum" (Libro del Perfetto Magistero), "Epistola Super Alchimia" (Lettera sull'Alchimia al Re di Napoli), "Novum Lumen", "Rosarium philosophorum" (attribuitogli, ma di autore sconosciuto), "Domande sull'Essenza e sull'Accidente", "Lo Specchio dell'Alchimia", "Carmen", "Semita Semitae", "Testamento", "La Practica" (Breviarium Librorum Alchemiae), "De Decotione", "Thesaurus pauperum" (volgarizzamento in siciliano) e a Lione tra il 1520 e il 1532, e a Basilea tra 1585 e il 1699, fu pubblicata l'Opera Omnia Arnoldi de Villanova.

  Ramon Llull (italianizzato in Raimondo Lullo), (12321316), Doctor Illuminatus, terziario francescano spagnolo, è stato alchimistascrittoreteologologicoastrologomistico e missionario, tra i più celebri dell'Europa del tempo. Il corpus lulliano comprende 260 opere riconosciute come autografe e 44 in dubbio e fra queste ultime, guarda il caso, tutte di argomento alchemico. Scrisse in latino, in catalano e in arabo (quest'ultime perdute). Si tratta di opere di filosofia, teologia, mistiche, pedagogiche, di medicina, di scienze naturali, di fisica, matematica, letterarie e poetiche. Tra le tante: "Ars magna", "De levitate et ponderositate elementorum", "Vita coetanea", "Ars amativa", "Felix de les meravelles",  "Il Libro dell'ordine di cavalleria", "Il Libro del pagano e dei tre savi", "Il Libro della contemplazione di Dio", "Lo sconforto", " Logica nova", "Ars generalis". Fra le opere apocrife di Alchimia attribuite a Raimondo Lullo, un posto eminente spetta al "Liber de secretis naturae seu tractatus de quinta essentia"  e ricordiamo che, per l'Alchimia medievale, la «quintessenza» di una sostanza era il raggiungimento della sua assoluta purezza, cosa che poteva essere ottenuta solo dopo cinque distillazioni successive, che ne eliminassero via via tutte le impurità. Altro scritto alchemico a lui attribuito è "Il Testamentum", fu composto probabilmente in Inghilterra verso il 1330 da un autore di origine catalana e di formazione medica. L’opera è uno dei primi testi alchemici che veicolano l’idea dell’elixir come medicina dei metalli e dei corpi umani, sviluppando implicazioni teoriche e pratiche già presenti negli scritti di Ruggero Bacone sull’Alchimia e, insieme, utilizzando elementi dell’ars lulliana e motivi della ricerca medica di Arnaldo da Villanova. La tradizione del testo, estremamente complessa, viene ora ricostruita sulla base dell’edizione approntata nel 1445 dal canonico inglese John Kirkeby (ms. Oxford, Corpus Christi College, 244), che ne riporta l’originale latino, nonché la redazione catalana probabilmente d’autore, di cui il manoscritto oxoniense è l’unico testimone conosciuto. La ricerca storica e quella sulla lingua della redazione romanza mettono a fuoco la fisionomia dell’autore e il contesto dell’opera che, oltre a essere la più antica del corpus alchemico pseudolulliano, riveste un ruolo di primaria importanza nella tradizione ermetico-alchemica medievale e rinascimentale.

  Giovanni da Rupescissa (in occitano Joan de Rocatalhada, 1310 ca.–  1365), frate francescano spirituale, fu autore autore di commentari a testi profetici, nonché di testi di alchimia. Sicuramente gli anni cinquanta del XIV secolo sono quelli in cui registriamo la più intensa produzione di testi da parte di Giovanni: il "Commentario all'Oracolo di Cirillo"; il "Liber lucis" un testo di Alchimia che si diffuse anche con il titolo "De confectione veri lapidis philosophorum";  il "De quinta essentia"; e il "De oneribus orbis". Giovanni riporta spesso nei suoi testi le parole di Arnaldo da Villanova e pochissimi altri.

 

  Nel XIV secolo si verificò una curiosa trasformazione del codice alchemico. Al testo scritto si andò pian piano sostituendo l'allegoria quale forma di registrazione delle sperimentazioni; nasceva cioè l'allegoria ispirata, almeno all'inizio, alle Sacre Scritture. Oggi, trattati voluminosi come "Il Segreto dei segreti" di Johannes Paulinus o il "Rosarium Philosophorum" (di cui abbiamo parlato poc'anzi), possono essere tranquillamente posti con le loro intense allegorie comodamente alla nostra visione.

 

  Gli olandesi Costantinus e Gratheus, così come fece Pietro Bono, scriveranno trattati in cui l'associazione tra Cristo e l'Alchimia darà una chiave di doppia lettura. Il trattato di Gratheus, scritto in un dialetto fiammingo delle Fiandre orientali è composto di due parti, una anonima e l'altra intitolata "Prudentia Salomonis", così come il  "Sol et Luna" di Costantinus,  dimostra chiaramente come fosse diffusa nella seconda metà del XIV secolo una mescolanza di Alchimia mistica, magia bianca e ricette pratiche. Tra questi testi spiccherà quel "Libro della Santa Trinità" del francescano Almanus, che verrà considerato dalla Chiesa "uno dei più mostruosi trattati (sono parole esatte) di alchimia" mai partoriti prima di allora da mente umana. Almanus cercherà infatti di dare all'Alchimia tre significati, uno religioso, in quanto poteva combattere l'Anticristo; uno politico, in considerazione del fatto che la "Pietra filosofale" poteva unificare l'Impero germanico ed infine uno tecnico, offrendo un banale ricettario d'invenzioni.

  Sarà la stampa a dare nuovo impulso alla manualistica alchemica, ormai in declino quella popolare divulgativa. La ristampa dei testi di Raimondo Lullo, di Arnaldo di Villanova con  lo "Speculum Alchimiae" e tanti altri precursori, andranno così a riempire, per fortuna nostra che li erediteremo, gli scaffali di regnanti-mecenati di un'epoca prossima alla modernità. 

  Caterina SforzaFrancesco I de' Medici (il principe alchimista, nel cui studiolo di Palazzo Vecchio fece dipingere allegorie alchimistiche da Giovanni Stradano), Cosimo I de' Medici, Edoardo III, Riccardo II, Felice IV, la stessa regina Elisabetta I d'Inghilterra s'attornieranno di alchimisti, di laboratori e codici di ogni tipo e antichità per cercare l'oro materiale. Ma per compiacere costoro qualcuno farà carte false.

  A tutto il 1536 si contano 98 autori con 151 testi alchemici, per non parlare di quelli fasulli.

  

  Nel XIV secolo l'alchimia ebbe una flessione a causa della condanna di Papa Giovanni XXII con la decretale Spondent Pariter che vietava la pratica alchemica, fatto che scoraggiò gli alchimisti appartenenti alla Chiesa dal continuare gli esperimenti. Ciò avvenne solo sei anni dopo la morte di Amaldo da Villanova, nel 1317, e questo, comunque lo si voglia interpretare, é la prova che agli inizi del XIVsecólo l'Alchimia era una realtà cosi attuale e diffusa che la Chiesa cattolica dovette prendere posizione in merito.

  L'Alchimia fu comunque tenuta viva da uomini come Nicolas Flamel, il quale è degno di nota anche perché fu uno dei pochi alchimisti a scrivere in questi tempi travagliati; Flamel visse dal 1330 al 1419 e sarebbe servito da archetipo per la fase successiva della pratica alchemica. Il suo unico interesse per l'alchimia ruotava intorno alla ricerca della pietra filosofale; in anni di paziente lavoro riuscì a tradurre il mitico Libro di Abramo l'ebreo, che avrebbe acquistato nel 1357, e che gli avrebbe rivelato i segreti per la costruzione della pietra dei filosofi.

  Paracelso, Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelsus, (1493 – 1541), è stato un medicoalchimista svizzero, ha rifiutato l'interpretazione metallurgica del sapere alchemico e la sua ricerca della produzione di metalli preziosi da quelli più vili. La sua Alchimia si concentra invece sulle sue ricadute medicinali, collegate ai concetti di elixir, sviluppando le premesse di Raimondo Lullo. Da questo punto di vista Paracelso «può essere considerato un pioniere della chimica farmaceutica poiché creò numerose preparazioni a scopo curativo con sostanze minerali (come mercurio, piombo, zolfo, ferro, arsenico, antimonio, solfato di rame) e vegetali (come il laudano) che puntavano a separare il “buono” dal “cattivo”, isolando, a seconda dei casi, attraverso la distillazione o la concentrazione, uno dei cinque principi attivi da lui individuati, ossia "l’ens astrale, ens venemi, ens naturale, ens spiritual ed ens dei". Vedi il suo "Liber Azoth".

  Accanto al "Mutus Liber", prezioso testo allegorico del 1677 privo di ogni scritto (muto appunto!), vedranno la luce testi più scadenti, scritti da persone che con l'Alchimia c'entravano poco, come John Dee, singolare figura di alchimista-stregone il quale pur avendo avuto a disposizione i mezzi e i denari di Elisabetta I e Rodolfo II riuscì, nonostante tutto a morire in miseria.

  Gli Alchimisti allora non lo potevano immaginare, ma l'oro lo avevano prodotto inconsapevolmente; nelle biblioteche europee e forse americane esiste una gran quantità di queste opere che aspettano d'essere riportati alla luce per essere studiati per quanto volevano dire e per ciò che in realtà mostrano: squarci di idee, costumi, speranze ed in un certo senso "pre-scienza"  e lungimiranza.

  Nel 1787, con il suo lavoro "Nomenclature chimique", Lavoisier troncò ogni ingerenza della filosofia nelle cose della materia.

 

Finis

La Tavola di smeraldo, versione latina d

La Tavola di smeraldo, versione latina dal De Alchimia di Johannes Patricius, pubblicato a Norimberga nel 1541.

Manuscritto del Picatrix.jpg

Manoscritto del Picatrix, opera in lingua latina tradotta dall'arabo in Spagna nell'XI secolo. Il titolo originale è Gāyat-al-hakīm, cioè "Il fine del saggio", scritto da Abū- Maslama Muhammad ibn Ibrahim ibn 'Abd al-da'im al-Majrītīoriundo di Cordova morto nel 1007-8 d.C.

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Musaeum Hermeticum

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Geber o Jabir_ibn_Hayyan, Vater der Chem

Geber o Jabir_ibn_Hayyan, Alchimista e "Padre della Chimica"

Paracelsus_ritratto_nel_1567_nella_tipic

Paracelso ritratto nel 1567 nella tipica posa di impugnare l'elsa della sua spada in cui, come indicato dal nome ivi impresso, si diceva fosse contenuto un rimedio miracoloso denominato «azoth». Sullo sfondo compaiono simboli rosacrociani, mentre in alto è riportato il motto latino Alterius non sit qui suus esse potest («Non appartenga ad altri colui che può appartenere a se stesso»)

Silvestro II e il Diavolo, illustrazione

Silvestro II e il Diavolo, illustrazione dal Martini Oppaviensis Chronicon pontificum et imperatorum (Cod. Pal. germ. 137, Folio 216v), 1460 ca.

Rosarium Philosophorum

Rosarium Philosophorum.jpg

Zosimo di Panopoli (fine III e inizio IV secolo) illustrazione di attrezzatura per distillazione da un sua manoscritto greco bizantino

Maria Prophetissa o Maria la Giudea di M

Maria Prophetissa o Maria la Giudea di Michael Maier (1566-1622)

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L'Udjat o Occhio di Horus

Zosimo di Panopoli (fine III e inizio IV
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La Stele di Metternich, datata attorno al attorno al 380-342 a.C., durante il regno di Nectanebo II della XXX dinastia egizia

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