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Liberi Muratori

bresciani - G

GAMBARA Alemanno

(1731 - 1804)

Affiliato ad una Loggia bresciana legata alla Massoneria templare tedesca, una delle prime logge massoniche bresciane.

Il Francovich e il Soriga annoverano “il famoso” Alemanno Gambara fra i primi massoni bresciani (vedi anche A. Fappani in Enciclopedia bresciana alla voce Massoneria), col FØž Rutilio Calini, genero della contessa Uggeri Capece, e Faustino Lechi.

Si afferma che in tarda età fosse contrario alle idee giacobine e durante la rivoluzione bresciana ed il dominio della Repubblica Cisalpina, frequentasse la chiesa [e non la Loggia]; ritengo questa nota storica molto distante dalla sua personalità; vero è che dopo una vita violenta e in vista del passaggio all’eternità ci si può pentire e tentare di riscattarsi, così come l’adesione alla Massoneria da parte dei nobili dell’epoca è per molti di loro dovuta più all’insofferenza verso il dominio della Repubblica veneta, che non riconosceva ai nobili dell'entroterra cariche pubbliche di prestigio nella capitale, più che ad un’adesione alle idee giacobine e senza voler rinunciare ai privilegi nobiliari d’origine feudale nel nuovo impero napoleonico.

Comunque vediamo la sua biografia.

Padre di Francesco Gambara (vedi).

Nacque a Pralboino (Brescia) il 2 marzo 1731.  

Nobile figura storica che ha segnato la comunità di Pralboino.

La nobile famiglia dei Gambara, secondo il Fappani, produsse dal ceppo iniziale longobardo una infinità di ramificazioni, ancora non del tutto studiate e chiaramente delineate. Per la ricostruzione dell'albero genealogico della famiglia è tuttora di fondamentale importanza lo studio del Litta, secondo il quale uno di questi rami (quello di Cigole) inizia con Alemanno, nato nel 1591 e si conclude con un altro Alemanno (1804) e con il di lui fratello Francesco (1771-1848).

Figlio di Alemanno, premorto il 22 gennaio dello stesso 1731 alla nascita del figlio che erediterà il suo nome, e di Clara Allegri.

La sua nascita fu salutata da letizia ovunque e da funzioni religiose solenni nelle chiese di Pralboino, Fiesse, Milzano, Fontanella, tanto era vasto il feudo sin dalla sua nascita, unitamente al Corvione di Gambara. Fu battezzato in S. Giovanni di Brescia dallo stesso abate del monastero, il 4 marzo con fastosissima pompa di ben 40 cocchi della nobiltà bresciana, preceduti dal padrino conte Giambattista Martinengo.

Trascorse ovviamente l'infanzia e la fanciullezza sotto la sola guida della madre, essendo rimasto orfano molto presto.

Abbandonato a se stesso si fece notare, ben presto, dagli "Inquisitori" della Repubblica per le sue "irregolari e violente direttioni" ed ancora quindicenne fu imprigionato nei Piombi di Venezia, mentre l'amministrazione delle sue rendite fu affidata al conte Luigi Avogadro e ad un Benedetti. A Venezia vi giunse "ben guardato milizie e sotto scorta di un graduato ufficiale", unitamente alla sorveglianza dei capitani di Verona, Vicenza e Padova. Il tribunale degli Inquisitori, considerate le colpe del Gambara, provenienti più dall'inesperienza giovanile e dalla convivenza di persone depravate che dalla sua cattiveria, lo liberò dai Piombi e lo relegò, per quattro anni, nel castello di S. Felice di Verona, dove il "podestà" gli inviò un sacerdote pio e dotto per istruirlo nella religione e nelle norme del ben vivere, ma con ben scarso profitto. Tutto ciò avvenne intorno al 1749.

Nel 1752 gli Inquisitori lo mandarono nella fortezza di Palmanova (progettata da Dionisio Boldo da Pralboino nel XVI secolo con il palazzo Gambara di Verolanuova) da dove però riuscì a fuggire, subito ricercato dai "rettori" di Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Como e Bergamo che tentarono di arrestare il fuggiasco, ma invano.

Forse stanco della vita randagia, si pose sotto la protezione della contessa Giulia Gambara (ramo veneto), maritata al vicentino Poiana. Ricevuto il 6 giugno 1753, da un ufficiale e da sei soldati, ai confini dello stato, dopo una sosta a Padova, venne confinato a Zara ed affidato, con insolita benevolenza, al "provveditore" della Dalmazia.

In verità gli furono anche perdonati nuovi fatti di violenza come la bastonatura ad un pescivendolo che si era rifiutato di vendere ad un suo domestico pesce, già impegnato da altri.

Il 23 settembre 1756, per ordine degli Inquisitori, veniva messo in libertà, per cui poté ritornare nei castelli di Pralboino e del Corvione. Qui peraltro si segnalava per nuove sopraffazioni e ribalderie.

La sua presenza nel paese della Bassa bresciana lasciò ampie tracce nella storia della comunità locale, anche a causa della sua personalità violente non comune. Alemanno fu definito il «Don Rodrigo» o «l’Innominato» di Pralboino, con un paragone che accostava la figura del conte ai celeberrimi e poco edificanti personaggi descritti dal Manzoni. E per la gente del popolo il conte era bollato con l’espressione eloquente «el catif de Pralbuì»!

Infatti nel maggio del 1757 mandò una quindicina di suoi bravi ad attaccare il quartiere delle guardie venete di Calvisano, solo reo di aver fermato un suo cavalcante, che poi avevano trattato con tutto il rispetto. Un povero "gabelliere", certo Sacco, venne ferito a morte; denunciato e convocato a Venezia per scolparsi, il conte rifiutò di presentarsi, continuando nelle sue violente imprese. Sfidando le pubbliche autorità si presentò a Brescia con una quindicina di bravi armati fino ai denti.

Perseguitò, inoltre inseguendolo fino a Venezia il nobile Giambattista Maggi che aveva possedimenti e case al Corvione di Gambara. Spalleggiato dai suoi bravi, a capo dei quali vi era un certo Carlo Molinari, compì scorrerie e soperchierie di ogni genere.

Tese un agguato ad un caporale degli sbirri di Vestone che aveva ucciso un certo Giuliano, suo bravo favorito e lo rese infermo per tutta la vita; fece picchiare a morte un agricoltore del conte Valotti di Isorella, trovato a cacciare sui suoi fondi; trattolo da letto ove era ammalato, fece bastonare a sangue un certo Ottavio Nicola di Visano che aveva dei debiti verso di lui; fece ferire un certo Pasino di Gardone V.T. che si era rifiutato di uccidere un tenente degli sbirri; fece bastonare qualsiasi persona trovata a cacciare nei suoi possedimenti.

Il parroco di Milzano Don Galluppi che aveva deprecato il comportamento del conte dal pulpito, poco dopo fu rinvenuto strangolato, unitamente alla domestica Innocenza Salvi la notte del 3 agosto 1792. Il misterioso delitto passò sotto silenzio e affidato alla sola mormorazione popolare che celava il mandante.

Intorno ai palazzi di Pralboino e di Corvione, la crudeltà, la fantasia, o meglio la paura popolare, accresciuta dall'impunità e dal segreto che più le aggravava, crearono una leggenda, come se lì dentro vi fossero trabocchetti e pozzi per le vittime, fantasmi, streghe, briganti e vi si consumassero frequentemente orge notturne, con le coppe fumanti di sangue umano, si distillassero veleni e si affilassero pugnali e scuri. Naturalmente su questi fatti molto giocò la fantasia popolare.

Insolente ed orgoglioso, come tanti altri del suo secolo, educati nel fasto, abituato a farsi obbedire, corteggiato dai servi, dai clienti, dai parassiti e dai poveri... di spirito, il conte Alemanno usava nello stesso tempo modi affabili e signorili, proteggeva i deboli e gli oppressi, aborriva cordialmente i ladri ed altri colpevoli di reati che oggi si chiamano comuni.

Della sua generosità vi sono molte testimonianze. La sua fu soprattutto una sfida, a volte atroce, allo stato e alla forza pubblica. Infatti per mandato del Gambara, un dragone al servizio della repubblica uccise un antico bravo caduto in disgrazia e quando il dragone si recò al castello per ricevere il pattuito prezzo del delitto, un sicario si incaricò di ammazzare con un'archibugiata l'incomodo testimonio. Quando giunsero gli ufficiali dei dragoni per prendere notizie del fatto, il Gambara si dimostrò dolente in modo da persuadere gli ufficiali stessi che l'uccisione era avvenuta casualmente.

Gli ufficiali dei pubblici dazi se osavano proteggere i diritti dello stato non erano sicuri della propria vita come capitò al direttore del dazio di Brescia, che ritornando da Venezia fu al punto di essere ucciso dai gambareschi sulla strada di Lonato. Per salvare la vita, in avvenire, dovette sottomettersi agli ingiusti voleri del conte e regalare una grossa mancia al Molinari, il quale si permetteva anche di tenere aperta al Corvione una bottega con sale di contrabbando, ridendosi delle leggi.

Imbaldanzito dall'impunità e compiendo il delitto con ipocrisia, come nel caso della uccisione di una giovane pralboinese, che si era rifiutata alle profferte del conte, presso la fontana dietro il castello con una archibugiata partita da una finestra (da qui la denominazione del luogo "fontana del bersaglio"), il Gambara mandò i suoi sicari più risoluti a commettere altri omicidi e violenze e Pralboino, in Valsabbia, sul Mantovano e sul Veronese, non mancando l'ausilio di altri signorotti come lui senza scrupoli.

Nel suo feudo imperava tirannicamente e se qualche imprudente osava pronunciare una sola parola di rivolta, veniva perseguitato.

Nel 1792, avendo sentito che la comunità di Gambara voleva mandare al Consiglio dei Dieci un memoriale contro di lui, si presentò in paese con cipiglio minaccioso, pronunciando parole terribili, tanto che i "reggenti" della comunità dovettero implorare dal conte perdono e protezione.

Fece traboccare il vaso la macabra sfida da lui lanciata contro l'autorità veneta quando il governatore di Brescia si vide arrivare in Broletto un carro di verdura quasi fosse un omaggio; ma il carro fu scoperchiato apparvero tra verze e broccoli le teste di guardie venete che due giorni prima si erano portate sulle terre del conte per inseguire un malfattore e che egli aveva fatto finta di accogliere festosamente, al punto di offrire loro un buon banchetto, dopodiché le aveva fatte decapitare. In vista di ciò gli Inquisitori di stato ordinarono a Paolo Rizzi, tenente di una compagnia di corazzieri di Brescia, di mettersi alla testa di un distaccamento di suoi soldati e di recarsi a Pralboino per arrestare il conte ed il suo cameriere Molinari. Il tenente Rizzi sul far del giorno assalì il castello, aprì la porta, ma non trovò traccia né del conte, né del cameriere; dopo aver rovistato per ogni dove si accontentò di portar via soltanto alcune lettere. Il conte subodorato il vento infido aveva preso il volo, peregrinando per varie città.

Fu a Bologna ed a Genova ove conobbe la marchesa Carbonara che condusse sposa, indi si stabilì nel 1760 a Monticelli d'Ongina, feudo dei Piacentini marchesi Casali. Monticelli divenne presto il ritrovo di brigate allegre, di conviti rumorosi, di giochi rischiosi, di uomini dissoluti.

Ma con una vita così dispendiosa, vennero meno al conte i denari. Per rifarsene, mandò un manipolo di ribaldi presso i Ponte S. Marco per il quale doveva passare il traino che conduceva a Venezia le somme ricavate da Brescia. Fattesi consegnare le chiavi dei forzieri, i bravi, tolsero alcune migliaia di ducati, rilasciarono una ricevuta a firma del Gambara, richiusero gli scrigni e riconsegnarono le chiavi.

A Monticelli nonostante l'esilio la sua fama crebbe anche perché egli seppe accaparrarsi gratitudine come quando, nel 1772, liberò la terra di Monticelli d'Ongina da masnadieri comandati a quanto sembra dai nobili Guzzoni del luogo, che sconfisse presso Zibello (Parma); e quando ancora si adoperò, intervenendo con proprio denaro anche presso la curia romana, per regolarizzare una relazione di un nobile piacentino.

Seppe pure accaparrarsi la stima del Duca di Parma che però non potendo più oltre ospitarlo, nel suo territorio, si adoperò, in concomitanza con le pressioni compiute da Giovanni Barchi di Pralboino (suo segretario e padre di Don Alemanno Barchi, storiografo bresciano assai noto), sull'inquisitore veneto Andrea De Mula per un suo ritorno in terra veneziana.

Il Gambara visse a Zara per due anni e poi a Chioggia, dove però gli fu proibito di lasciare il castello e di aver rapporti con qualsiasi persona, fatta eccezione della moglie e del figlio Francesco.

Il 26 settembre 1778 fu liberato dalla relegazione con l'obbligo di presentarsi al Segretario degli Inquisitori a Venezia ove passò qualche tempo allegramente.

Durante il periodo dell'esilio il Gambara ebbe dalla marchesa Carbonara tre figli; Uberto, Brunoro e Francesco. I primi morirono giovinetti, il terzo, nato il 21 dicembre 1771, fu valido scrittore di memorie storiche bresciane ed ebbe gran parte nei rivolgimenti bresciani del 1797.

Pure durante l'esilio il Gambara conobbe il celebre avventuriero FØž massone Giacomo Casanova, che in quel tempo si addestrava a far la spia o confidente ordinario degli Inquisitori di Stato. A lui confidò, in alcune lettere, le sue disavventure familiari e specialmente la separazione dalla moglie che aveva intrecciato una relazione con uno dei conti Maniscalchi di Verona, da lei conosciuto a Venezia, vendicandosi, in tal modo dei tradimenti del marito, specie con una contessa di S. Secondo.

Sia lui che la moglie continuarono i rapporti con il FØž Casanova che raffigurò il conte nel personaggio di Euristeo, re di Micene, in un atroce "libello" che intitolò, secondo una fatica di Ercole, in forma altisonante "La stalla di Argia ripulita".

Ristabilitosi a Pralboino, pur villeggiando a Salò il Gambara non perdette le cattive abitudini. Proprio nella cittadina gardesana conobbe una bellissima giovinetta povera e la prese con sé e nel 1779, il 5 gennaio, la maritò in fretta ad un suo cliente che diveniva ben presto padre di un figlio al quale fu posto il nome di Alemanno. La tresca continuò ed un parente della donna che voleva impedirla cadde ucciso. Insofferente di ostacoli, il Gambara fece rapire dei suoi bravi la sposa dalla quale ebbe un altro figlio che morì nei gorghi della Beresina.

Sempre a Salò con un colpo di mano, per terra e per lago, alla caserma degli sbirri veneti, riuscì a liberare un suo bravo, là rinchiuso e rimasto ferito in una rissa con soldati.

Nel 1782 gli abitanti di Pralboino protestavano presso il governo veneto, inviando un elenco delle angherie e delle vessazioni compiute dal conte Alemanno e dai suoi bravi (principalmente tra essi Barchi, Molinari, Bertoni detto "Ferant"). In risposta gli inquisitori di stato chiedevano, l'11 marzo 1782, informazioni in proposito al Podestà di Brescia che confermava. Mentre veniva arrestato il suo manutengolo Giacomo Barchi, il conte riusciva ad ottenere, il 22 luglio 1782, piena autonomia con l'ammonimento di essere imparziale con la popolazione di Pralboino e di allontanare dal feudo tutti i banditi.

Si deve pensare però che andasse modificando anche il tenore di vita, tanto che nel 1792 con Giorgio Martinengo, venne nominato "provveditore alle vettovaglie" di Brescia.

Il suo palazzo e l'osteria di fronte ai portici, in quel momento erano frequentati più del Broletto da persone che gli affidavano pratiche da trattare.

Fu contrario alle idee giacobine e durante la rivoluzione bresciana ed il dominio della Repubblica Cisalpina, visse appartato e fu visto spesse volte raccogliersi in chiesa, mentre verso il figlio Francesco si dimostrò affettuoso e premuroso.

Di ritorno dai venti anni di bando inflittigli dalla Serenissima, quasi volesse riaffermare l'antica potenza, sulla cadente rocca di Pralboino, fece costruire l'attuale palazzo su progetto di Gaspare Turbini contemporaneamente alla chiesa parrocchiale (1782-1790) che voleva non superasse per altezza e mole la sua costruzione; da qui il marcato contrasto con il parroco Treccani che finita la chiesa mise sulla sua porta un'epigrafe nella quale evidenziava che la parrocchiale fu sì costruita con il parere dei ricchi, ma con i soldi dei poveri, alludendo evidentemente al Gambara che prima aveva consigliato, ma poi osteggiato il sorgere della costruzione. Per mancanza di soldi, il palazzo rimase incompiuto nel lato di mattina per il rifiuto di altri prestiti da parte del "banco d'usura" ebraico di Ostiano, diretto dall'ebreo Frizzi delle Tavolette.

Del Gambara, come detto, rimasero solo le nome di "Innominato bresciano" e di "Don Rodrigo di Pralboino" di manzoniana memoria. Qualcuno pensa che a lui e ad altri come lui si riferisca il FØž Vittorio Alfieri quando indirizzava alla bresciana contessa Eleonora Martinengo, una composizione dove si legge: "Vili, impuniti signorotti han piena - di scherani lor corte ed uccider fanno - chi sott'essi non curva e testa e schiena".

Il Gambara in questo imponente palazzo spirò il 29 gennaio 1804, lasciando in difficoltà economiche il figlio Francesco, già messo a disagio dalle leggi napoleoniche che abolivano tutti i diritti feudali.

Venne sepolto al Corvione, sotto il pavimento della chiesa locale, dove aveva già fatto predisporre un'edicola con la scritta latina: "D.O.M. - Quotidianum hic sacrificium - Populo Aediculam - Sibi tumulum - Statuit Adhuc vivens Alemannus de Gambara - Decessit anno MDCCCIV Mense ianuarii die XXIX - Viator et hospes Precamini animae requiem", trad. "Alemanno Gambara - ancor vivo volle qui una cappella per il popolo ed un sepolcro per sé - con la quotidiana celebrazione del sacrificio - tu che passi e che sosti - prega la pace per quest'anima”.

Dispose di essere sepolto con il saio francescano e con una spada tra le mani congiunte.

Verso la fine dell'800 l'avello fu scoperchiato ed il teschio, quasi a monito, fu collocato sul cornicione interno della chiesa di Corvione.

Nell'occasione di successivi restauri il cav. Ettore Mettica, proprietario degli ex beni del conte Alemanno, raccolte tutte le ossa le depose in un'urna della sua cappella gentilizia del cimitero come ora si presenta unitamente alla lapide suddetta con l'aggiunta: "Sacello vetustate diruto - Preastatiore forma instauratu - Atque aucto - Hector Mettica - Hiccineres famosi comitis pie - Componere iussit - A. MDCD".

Passò all’OrØž Eterno il 29 gennaio 1804 all’età di 73 anni.

 

GAMBARA Giovan Francesco (Francesco)

(1771 – 1848)

Affiliato alla Reale Loggia Amalia Augusta.

Nacque a Monticelli d’Ongina (Piacenza) il 21 dicembre 1771. Militare

Il conte e colonello FØž Francesco Gambara è citato (Guerrini in La Massoneria a Brescia prima del 1821, I cospiratori Bresciani del ‘21, p. 25, 30, 18, 187) come massone fra i più accesi e attivi. Fu amico e biografo del FØž massone Giacomo Pederzoli di Gargnano. Fu cisalpino convertito ed ex massone.

Il Fappani riporta che il ramo dei Gambara di Cigole si estese fino ad un Alemanno Gambara che il 2 gennaio 1677 sposò e da Teresa Gambara da cui nacquero Camilla (sposata a un Nicelli), Uberto e Ippolita (sposata a Cesare Provaglio). Uberto sposò Chiara Gambara il 23 ottobre 1696 da cui nacque Alemanno che, a sua volta, da Clara Allegri di Verona ebbe Alemanno (nome dato in memoria del padre deceduto prima della sua nascita), il celebre bandito. Da questi e da Marianna Carbonara di Genova nacquero Brunoro e Uberto (nato nel 1769) entrambi morti molto giovani, e Francesco (il nostro che non ebbe figli) coi quali il ramo si estinse.

Francesco è quindi figlio del conte Alemanno, bresciano, e di Marianna Carbonara di Genova, quartogenito dopo due fratelli e una sorella a lui premorti.

Il padre, fervido sostenitore dell’autonomismo bresciano da Venezia, viveva in esilio nel Ducato. Il FØž Francesco fu educato a Parma presso il collegio dei nobili, ove rimase fino al 1789.

Avverso anch’egli al dominio della Repubblica di Venezia su Brescia, condivise fin dall’inizio con altri coetanei aristocratici i principi della Rivoluzione francese, validi, oltre che per le istanze democratiche, anche come formula antiveneziana.

Nel 1792, a Brescia, fu eletto presidente del Casino dei buoni amici, associazione sospettata dagli inquisitori di Stato di giacobinismo.

Nel 1794 fu coinvolto in un processo istruito contro un gruppo di nobili filofrancesi e venne punito dal tribunale veneto con un confino di otto mesi nel suo feudo bresciano di Pralboino.

Quando le armate francesi di Napoleone Bonaparte nel maggio del 1796 giunsero a Brescia, Francesco, nonostante i recenti ammonimenti, fu tra i primi a entrare in relazione con i capi dell’armata. In quel periodo il FØž organizzò la rivolta bresciana contro Venezia che, ben vista dai Francesi, sarebbe scoppiata l’anno seguente: per le attività cospirative fu denunciato al governo veneziano con altri capi della congiura, fra cui Giuseppe Lechi, ritenuto insieme con il Gambara, il capo più sospetto del movimento sovversivo.

Il 18 marzo 1797, esplosi i moti rivoluzionari bresciani, il FØž fu tra i rivoltosi.

Il 19 marzo fu nominato generale di fanteria, ma fu sostituito l’11 maggio dal Lechi, rimanendo capo di stato maggiore e aiutante generale della legione bresciana. La sommossa si estese al Benaco e alle valli: il Gambara, ricevuto l’ordine di assaltare Salò, vi irruppe capeggiando un corpo volontario e fece prigioniero il governatore veneziano A. Condulmer, che il 26 marzo condusse con sé a Brescia.

Il 29 marzo, con il riarmo degli abitanti di Salò, fedeli al governo veneziano, il Gambara fu colà inviato in aiuto del generale G. Fantuzzi: i Salodiani sarebbero stati facilmente domati, ma per l’improvviso intervento degli uomini della Valsabbia, i Bresciani, presi alle spalle, furono sconfitti il 30 marzo. Il Gambara venne fatto prigioniero e tradotto prima a Verona e poi, l’8 aprile, nelle carceri veneziane del castello di S. Andrea al lido, ove fu condannato a morte.

Tornate la Valsabbia e la Riviera di Salò sotto la giurisdizione bresciana, il Direttorio, tramite Bonaparte, chiese e ottenne che il FØž Francesco fosse liberato il 24 aprile 1797. Egli dette testimonianza di questi avvenimenti nella sua Relazione del fatto di Benaco (Brescia 1797). Sul periodico bresciano Giornale democratico (1797, n. 9), apparve, quasi certamente per mano del Gambara, la Risposta di un anonimo bresciano, in cui veniva ribadito il desiderio di unione con tutti gli Italiani, fatta eccezione per i Veneziani.

Successivamente collaborò alla formazione della milizia cittadina bresciana, nerbo dell’esercito della Repubblica Cisalpina, affiancando il Lechi che ne fu comandante e fondatore.

Dopo il trattato di Campoformio, riunita Brescia alla Repubblica Cisalpina, il Gambara fu eletto commissario politico e militare della Valsabbia (1798) e collaborò con le truppe cisalpine a reprimere il brigantaggio nelle valli: in quest’occasione fu rivalutato dai Valsabbini, tanto da poter smentire, nella sua autobiografia, le affermazioni di C. Botta che, nella Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (X, Parigi 1824, p. 242), lo ritenne coinvolto nei saccheggi del Bresciano.

Sempre come commissario politico e militare, nel marzo 1799 difese le valli dalle minacce tirolesi ai passi di Lodrone e Riccomassimo.

Rimase al suo posto anche durante l’invasione austro-russa del ‘99 e, dopo aver combattuto agli ordini del generale B.L.J. Scherer, che fu battuto a Magnano, si rifugiò a Peschiera dove venne fatto prigioniero.

Rimesso in libertà, si recò in Francia da esule e si arruolò nella legione italica dei «rifuggiti» lombardi formata da Napoleone: ottenne l’incarico di ufficiale di stato maggiore del generale P. Grenier, con il quale combatté nell’infausta campagna piemontese.

Quando Grenier passò all’armata del Reno, il Gambara preferì rimanere nell’esercito d’Italia.

Nel 1801 il generale G.M. Brune - ai cui ordini aveva combattuto come capo di brigata allo stato maggiore - voleva condurlo con sé nella sua ambasciata a Costantinopoli, ma una malattia costrinse il Gambara a rimanere in patria.

Nel 1801, ricoprendo ancora la sua carica militare, ebbe il compito di formare il corpo dei bersaglieri bresciani. Nello stesso anno, alla fine di dicembre, venne inviato a rione, tra i dodici ex notabili dell’antico patriziato, per i Comizi riuniti da Bonaparte (Consulta legislativa cisalpina): in quella circostanza, nel gennaio 1802, fece parte della Commissione dei trenta, incaricata di proporre i nomi per il governo e il Corpo legislativo della Cisalpina e della Commissione dei cinque che presentò a Napoleone la nomina di presidente della Repubblica rinominata Italiana: infine venne nominato tra i membri del Corpo legislativo nel Collegio dei possidenti.

Intorno al 1803, avendo rifiutato la proposta di F. Melzi, vicepresidente della Repubblica Italiana, di entrare nella compagnia di guardie italiane a cavallo voluta a Parigi da Napoleone, il Gambara cadde in disgrazia presso quest’ultimo e si ritirò nelle sue terre, ove dimorò fino all’ottobre 1805.

In quell’anno, riaccesasi la guerra contro Inghilterra, Russia e Austria, il Gambara, richiamato alle armi dal decreto del viceré Eugenio de Beauhamais con il grado di colonnello, ebbe l’incarico di organizzare il battaglione dei cacciatori reali di Brescia, con cui partecipò alle battaglie del 1805 di Ulma e Austerlitz; ricevette poi la nomina di colonnello del 370 reggimento di fanteria leggera.

Nel maggio 1806 fu tra i primi a ottenere le insegne dell’Ordine della Corona di ferro.

Nel maggio 1807 chiese di essere posto a disposizione del ministero della Guerra per meglio occuparsi del suo patrimonio gravemente dissestato, oltre che dalla sua inclinazione al gioco, dal pagamento di 300.000 lire di fideiussioni e dal «tradimento» di N. Fé al quale aveva conferito procura illimitata dovendo trattenersi fuori Brescia per gli impegni militari.

A Venezia, nel 1809, dopo i contrasti con il ministro della Guerra M.A. Caffarelli, il Gambara fu in urto con il viceré d’Italia e abbandonò il reggimento, venendo riformato nel gennaio 1811.

Si ritirò nel suo podere sulle colline bresciane detto «i Ronchi».

Tuttavia il governo italiano aveva continuato a riservargli il trattamento e il grado di colonnello: nel 1814, per interessamento del generale Grenier, avrebbe dovuto riprendere servizio attivo, ma la cosa non ebbe seguito per l’avvento della dominazione austriaca.

L’appartenenza del FØž Francesco alla massoneria (proibita dall’ Austria nell’agosto e nel dicembre 1814) e la sua fedeltà ai principi napoleonici lo fecero menzionare nei rapporti periodici dei commissari distrettuali sulla vigilanza degli ex Massoni più sospetti.

Fu sollecitato dal generale austriaco J. Klenau a sostenere la nuova egemonia, ma, non aderendo, perse il grado e la retribuzione.

Da allora in poi cessò di manifestare idee democratiche e repubblicane, così riabilitandosi agli occhi degli Austriaci, e si dedicò esclusivamente al lavoro letterario, anche grazie agli aiuti economici che gli giunsero dalla contessa Eleonora Gambara Sant’ Angelo e dal conte A. Griffoni Sant’Angelo.

Nel 1823 A. Buccelleni segnalò il Gambara alla polizia come probabile aggregato alla setta dei federati lombardi.

Nonostante manifestasse maggior moderazione, egli continuò a nutrire idee liberali che condivise con amici bresciani fra i quali il FØž Camillo Ugoni, patriota e letterato in esilio a Parigi dal 1826: tra i due un fervido scambio epistolare relativo anche a temi culturali (cfr. la lettera sulla tragedia del 22 ag. 1817) documenta il fattivo contributo del Gambara all’amnistia e al rimpatrio del concittadino (su cui le lettere scritte tra il 1826 e il ‘33).

Socio dal 1812 dell’Ateneo di scienze, lettere ed arti, fu in rapporto non solo con comici di grido, come F. Righetti e A. Bon, ma anche con letterati famosi: il FØž Vincenzo Monti, in una lettera del 23 settembre 1812, affermava di ritenersi onorato dell’intenzione del FØž Francesco Gambara di intitolargli la tragedia Rosmunda; G.B. Niccolini, in quattro lettere a M. Pelzet dal 1827 al’29, evidenziò l’atteggiamento polemico del Gambara nei riguardi delle sue tragedie.

In materia storico-politica produsse vari lavori, tra i quali l’Ode per la nascita del re di Roma (Brescia 1811); Gesta de’ Bresciani durante la Lega di Cambrai (ibid. 1820), poema epico in tre canti sulla congiura bresciana del 1512, le cui note testimoniano grande precisione nelle indagini storiche; nonché i Ragionamenti di cose patrie ad uso della gioventù (IVI, ibid. 1834-40), in cui, più che l’esattezza storica, è riscontrabile l’annotazione del cronista che si avvale anche dei propri ricordi, come in particolare avviene nei volumi V e VI (il primo menziona infatti scienziati, letterati e pubblici funzionari contemporanei bresciani mentre il secondo annovera musicisti concittadini del presente e del passato).

Fonti e Bibl.: F. Gambara, Autobiografia, in D. Diamilla Milller, Biogr. autografe ed inedite di illustri italiani di questo secolo, Torino 1853, pp. 157-163; V. Peroni, Biblioteca bresciana, Bologna 1968 (rist. anast. dell’ed. Brescia 1818-23), II, pp. 99 s.; Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 359.

Passò all’OrØž Eterno a Brescia il 20 novembre 1848 all’età di 77 anni, benvoluto dagli amici e annoverato tra i notabili bresciani.

GAMBARI Giuseppe

(1763 - 1829)

Membro “onorario” della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 53).

Nato a Bologna il 4 dicembre 1763.

Regio Procuratore e professore.

Massone di notevole importanza e spessore nella storia della giustizia criminale del Regno d’Italia (vedi Tesi in dottorato di ricerca di Damigela Hoxha, L’amministrazione della giustizia criminale napoleonica a Bologna fra prassi e insegnamento di diritto penale, anno accademico 2015-2015).

Sulla certa partecipazione del Gambari alla massoneria bolognese cfr. G. Grec (a cura di), Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, Bologna, 2007, passim; C. Manelli – E. Bonvicini – S. Sarri, La massoneria a Bologna dal XVIII al XX secolo, Bologna, 1986, pp. 37, 52, 58.

Flautista dilettante. Socio del Casino fra i Direttori, professore universitario e avvocato di grido, con l’arrivo dei Francesi aveva avuto "un novello collocamento in più alte e ragguardevoli cariche": deputato al Congresso Cispadano, membro della Giunta Criminale, giudice del Tribunale civile, membro juniore nel Consiglio legislativo della Regia Cisalpina per il Dipartimento del Reno.

Fu poi, sotto il Regno d’Italia, Regio Procuratore generale presso la Corte d’appello, cavaliere dell’Ordine della Corona di Ferro e barone del Regno. L’ultima avventura a fianco di Murat (che cercò poi di sconfessare: cfr. V. Fiorini, Le confessioni politiche di un barone bolognese del Regno italico, in "Rivista del Risorgimento", vol. I, pp. 338-343) segnò la fine di una vita da protagonista.

Tornato dalla Svizzera, dove si era rifugiato con Pellegrino Rossi, visse della pensione pontificia, e morì nel 1829 “lasciando di sé il nome di valentissimo ed eloquente Professore, Giurisconsulto e Difensore Criminale” (N. Azzolini, Notizie intorno alla vita dell’avv. Giuseppe Gambari, Bologna, 1831; S. Mazzetti, Repertorio di tutti i professori antichi e moderni della famosa Università e del celebre Istituto delle Scienze di Bologna, Bologna 1848, ristampa anastatica 1988, pp. 176-177).

Dopo la sua morte venne considerato tra gli illustri bolognesi e per questo sepolto nel Pantheon - Sala illustri della Certosa di Bologna.

Passò all’OrØž Eterno a Bologna il 22 agosto 1829 all’età di 66 anni.

 

 

GASPARETTI Donato

(?)

Libero Muratore di Pontoglio (Brescia) e garibaldino, ha partecipato alla battaglia di Mentana.

Sarto in Pontoglio (vedi Elenco possessori di redditi della provincia di Brescia nel 1930).

È ricordato dal poeta Angelo Anselmi in una sua poesia dal titolo “Gasparetti il massone” che riportiamo dal libro “Voci nella Notte”, anno 1979, stampato da Litogr. Print, Bergamo.

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Gasparetti il Massone

"Tra i personaggi di rilievo

di carattere ed importanza,

vive ancora, allo spirare

del Secolo passato,

(il diciannovesimo)

dell’Era Volgare,

col Sindaco, il Farmacista,

il Medico Condotto,

e il ricco signor Luigi,

che prete non diventò,

un distinto vecchietto,

educato, corretto.

Colto, gentile,

Gasparetti Donato

era chiamato.

Da giovane avea indossato

la camicia rossa garibaldina,

reduce da Mentana.

Adorava Garibaldi

professando idee avanzate

di Liberalismo integrale.

Era diventato Massone,

confratello convinto

del Libero Pensiero,

nemico sincero

del Potere Temporale.

In fondo alla piazza

nelle ore di riposo

si affacciava sovente

col tondo berrettino

alla Garibaldi, ricamato.

Dalla gabbia il merlo,

nero come il carbone,

con alta voce intonava

l’Inno di Garibaldi,

chissà quando imparato

a dispetto del buon Parroco

che sdegnato si eclissava

nella portina del Sagrato.

Coi fratelli Massoni

si riuniva qualche volta

in casa del Dottore

insieme a ricordare

le tumultuose,

eroiche vicende,

del travagliato Risorgimento

e di Roma Capitale.

Coi giorni felici

dell’Università,

quando a Pavia,

si preparavan gli eventi

nel clima ardente

della libertà,

le eroiche giornate

dei Volontari Lombardi

per i saldi Battaglioni

dell’Armata Sarda.

Nelle serate di luna,

Gasparetti,

a notte inoltrata

da solo passeggiava

nella silente serenata,

guardando il cielo

di stelle illuminato.

Una notte ammirando

il firmamento, esclamò:

“Oh, che bel cielo stellato!”

Dalla oscurità di una nicchia

nelle mura praticata

del castello antico,

rispose una voce rauca

uscita dalla bettola

vicina alle mura:

“Oh, che bel c… s…!”

Villanzone,

rispose indignato,

con fierezza,

il vecchio signore

della buona società,

di quei bravi italiani,

che col braccio e la mente,

avevano fatto, eroicamente,

l’Unità della Patria".

22 gennaio 1979

Angelo Anselmi

 

 

 

GASPARETTI Daniele

1957 – vivente

Affiliato alla Loggia Leonessa Arnaldo e poi alla Loggia Minerva di Marone (BS). FØž MØž AØž del Collegio Brixia nel 2011.

Nato a Ospitaletto (Brescia) il 22 luglio 1957. Funzionario di Banca. Scrittore e vignettista.

Figlio di Francesco e di Rosa Frerotti.

Ha scritto il romanzo “La loggia del Convento”, Giraldi, 2008 e due saggi d’istruzione massonica “L’Apprendista Libero Muratore” Jouvence, 2017 e “Il metodo massonico come percorso di perfezionamento individuale - Considerazioni sul rituale di passaggio a Compagno dell’Arte”, Pontecorboli, 2018.

È stato iniziato nella Loggia Leonessa Arnaldo n. 951 all’OrØž di Brescia il 3 marzo 1983 dal MØž VØž. Giorgio Tuveri. Il 12 dicembre 1984 diventa Compagno dell’Arte e l’11 aprile 1985 è elevato a Maestro Libero Muratore. Entra nel Rito Simbolico Italiano il 4 giugno 2011 in Gran Loggia del RØž SØž IØž a San Leo (Rimini) a piè di lista del Collegio Ticinum di Pavia e dopo pochi mesi (il 24 settembre 2011) fonda il Collegio Brixia.

Studioso fin da giovanissimo della storia delle religioni, con particolare attenzione al cristianesimo nelle sue varie ramificazioni, orienta poi i suoi studi alla filosofia e ai misteri dell’anima, seguendo studi junghiani. È un deciso difensore della libertà di pensiero. Il suo principio ispiratore è che “tutti possono fare della propria vita un’opera d’arte”, compiendo in sé la propria straordinaria ed unica vocazione individuale, con semplicità e amore.

Si definisce un credente critico, un uomo del dubbio.

Ha sempre cercato di comprendere la realtà con ragionevolezza, senza mai dare per scontato la verità degli insegnamenti ascoltati, magisteri delle varie chiese compresi, evidenziandone le incoerenze, riservandosi la discrezionalità di un proprio giudizio e approfondimento e la possibilità di scelta.

Per le note vicende legate allo scandalo P2 si assonna dall’Ordine nel 1987, ma continua ad avere rapporti fraterni con i Fratelli e continua ad indagare ed approfondire argomenti esoterici e segue corsi di psicologia junghiana, fa ricerche storiche sulla Massoneria bresciana e sulla filosofia della Massoneria. Il risveglio avverrà il 1 ottobre 2010.

Scrittore e disegnatore per passione. Massone per stile di vita.

 

 

GASPARETTI Giuseppe

(?)

Segretario comunale a Gazzuolo (Mantova): galantuomo, ma sempre caldo partigiano del liberalismo.

(Archivio storico lombardo, La Massoneria sotto il Regno italico, p. 338).

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui, il nome di Gasparetti Giuseppe non figura in altri repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

GAZZANIGA Carlo Antonio (o Carlantonio)

(1773 - 1820)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 57).

Nacque forse a Bergamo.

Fu Dottore in Legge.

Nel 1807 fu Sostituto della Corte di Giustizia di Brescia.

Nel 1809 fu promosso Giudice d’Appello a Bologna e vi rimase fino al 1814. Fu membro del Collegio dei Dotti di Bolgna (Cfr. T. Casini o.c. p.375).

Visse ad Ancona. Fu socio corrispondente dell’Ateneo di Brescia dal 1809 (15-Marzo).

Una sua poesia in terzine si trova nell’opuscolo in miscellanea “Inaugurazione dello stendardo della L. del g. 2. del m. 8. dell’anno 5807” col titolo “Installazione dei nuovi Dignitari ed Uffiziali ed agape del S. Gio. d’Inverno 5807 nella quale si festeggiò pure il ritorno della Divisione italiana della Grande Armata”.

Note di G. Fenaroli, Primo secolo dell'Ateneo di Brescia, 1802-1902 (Brescia, 1902). Cfr. pag. 189 – in cui si richiama a quanto riportato a pag. 8, nei «Comm. dell’Accad. … del Dipartim. del Mella» 1811 (Brescia 1812) – e pag. 225, sulle cui notizie è stata compilata la scheda.

In: Applausi poetici per le nozze Nicolò Bettoni [FrØž massone] con Maddalena Bellegrandi (Brescia 1810: 7); La poesia nata per cantare la gloria dei semidei, le gesta dei prodi, il natale degli eroi, ritorna al suo nativo splendore, celebrando la nascita del Re di Roma (in: «Comm. Ateneo di Brescia» 1811: 12). (BAt) (BQ) (no SBN) 734) N° 622 (del Registro Soci).

 

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GEROLDI Ambrogio

(1763 - ?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 57).

Fu Maestro Architetto Revisore aggiunto della Loggia nel 1809.

Nacque il 29 luglio 1763.

Di Brescia. Citato tra i 454 Rappresentanti italiani ai Comizi di Lione nel gennaio 1802. (in La nostra avventura con la bandiera tricolore italiana).

 

 

GERARDI Gio. Antonio

Fratello Affiliato alla Regia Loggia Arnaldo all’OrØž di Brescia di RSAA (1864).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 120).

Esponente della Sinistra, noto negoziante di mobili.

Il FØž Pagani Giovanni Battista sposò tale Marianna Gerardi di Lonato, forse parente del nostro.

Null’altro sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui, il suo nome non figura in altri repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

GIRELLI Vincenzo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 57).

Giudice.

Di famiglia nobile bresciana.

Nel 1802 fece parte del Consiglio Dipartimentale.

Fu Consigliere di Corte d’Appello di Brescia nel 1815.

Raccolta funebre ad onore del Consigliere Vincenzo Girelli Giudice di Appello in occasione dell’esequie a lui celebrate nella chiesa di S. Lorenzo il giorno 27 febbraio 1815, Brescia, Niccolò Bettoni, 1815: contiene un’iscrizione del Morcelli, l’orazione funebre recitata da Antonio Buccelleni, professore di eloquenza e storia e socio dell’Atene [bresciano], alcuni sonetti, uno dei quali è di Ferdinando Arrivabene, collega e FrØž massone del defunto.

Frequentò il circolo di Lodovica Ostiani con il FØž massone conte Giovanni Estore Martinengo Colleoni ed i suoi fratelli, i conti Corniani, Lucrezio Longo, l'avvocato Beccalossi, il FØž massone abate Antonio Bianchi e Francesco Poncarali.

 

GIOIA (o Gioja) Melchiorre

(1767 - 1829)

Affiliato alla Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Melchiorre_Gioia).

Nato a Piacenza il 19 gennaio o 20 settembre 1767 [Vedi Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in Bibliografia, indica la data del "19 gennaio" 1767. Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana, edizione 1933, riporta "20 settembre" dello stesso anno].

Economistapolitico e intellettuale.

A lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia.

Dopo gli studi nel Collegio Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo di Jeremy Bentham, dell'empirismo di John Locke e del sensismo di Étienne Bonnot de Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero di Giansenio.

Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni politiche: nel settembre 1796 vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo occupano il nord Italia.

La notizia del premio ricevuto gli giunge però in carcere: nel frattempo Gioia è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Gioia viene scarcerato nello stesso anno 1797 grazie, forse, alle pressioni di Napoleone Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di Campoformio, con la cessione di Venezia all'Austria da parte della Francia in cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però ben presto a diventare oppositore della Francia stessa.

Dopo aver rinunciato al sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fondando diverse testate, (Il Monitore Italiano con Ugo Foscolo, "Il Censore", "La Gazzetta nazionale della Cisalpina", "Il Giornale filosofico politico"), stroncate una dopo l'altra dalla rigida censura austriaca per le posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioia stesso ed i suoi collaboratori vi sostengono. È dalle colonne del "Giornale Filosofico Politico" che nel 1799 scrive una lettera aperta al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere nel 1796; nello stesso anno però Napoleone Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi e Melchiorre Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere scarcerato quattordici mesi dopo, in seguito alla vittoria francese nella Battaglia di Marengo.

Nel 1801 Gioia viene nominato storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica il trattato Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto, ispirato dai tumulti per il rincaro del pane, e Il Nuovo Galateo. Nel 1803 viene rimosso dalla carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d'organizzarla.

L'apprezzamento per i suoi solidi e realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina nel 1807 alla direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici, causa di nuove e accese polemiche e della rimozione dall'incarico. Tale attività rese Gioia uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio per le tasse, gabelle, e così via).

Il FØž Gioia fi precursore di concetti giuridici e medico-legali. Grazie alle sue conoscenze statistiche ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del danno alla persona con una concezione che supera la questione patrimoniale.

Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa specifica:

"...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi.." .

E ancora, seppur meno noti, concetti come:

- "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza - Mezzo di godimento - Mezzo di bellezza - Mezzo di difesa

- “Rendendo paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali difendendosi".

Si tratta di principi rivoluzionari per l'epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che derivava dalla sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce reddito, ma anche un soggetto  che attraverso il lavoro realizza la propria personalità.

In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ottanta del novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico. Sul filone di queste tematiche nel 1994 gli veniva intestata a Pisa un'associazione scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e assicuratori.

Testo fondamentale nella storia dei Galatei, il Nuovo galateo di Gioia fu scritto per contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo conosce ben tre edizioni. La prima, del 1802, si sofferma in particolar modo sulla definizione laica di "pulitezza" intesa come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato", "Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".

Nella seconda edizione del 1820, Gioia ridimensiona il concetto di "pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza generale", "Pulitezza particolare" e "Pulitezza speciale".

La terza edizione risale al 1822 dove Gioia, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale", considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace sociale mediante le buone maniere.

Crollato il dominio napoleonico nel 1814, negli anni della Restaurazione Gioia produce le sue opere maggiori: il Nuovo prospetto delle scienze economiche (1815-1819), il trattato Del merito e delle ricompense (1818-1819), Sulle manifatture nazionali (1819), "L'ideologia" (1822): gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo arresto, dal 19 dicembre 1820 al 10 luglio 1821, con Pietro Maroncelli e Silvio Pellico, per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta carbonara dei "Federati".

Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, Gioia ha finalmente davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, La filosofia della statistica (1826). Muore a Milano nel 1829, trovando sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina (per un periodo di tempo, si pensò erroneamente che il suo corpo fosse stato sepolto presso il vecchio Fopponino di Porta Vercellina): nel 1855 lo scrittore Ignazio Cantù, nel suo Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche ne poteva ancora vedere la lapide tombale redatta in latino e scriveva:

«Nel cimitero vicino (il cimitero della Mojazza) fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia, di Gianbattista De-Cristoforis, di Luigi Sabatelli, di Giacomo Albertolli, e d'altri uomini insigni (...)»

Prende il suo nome il Liceo Classico di Piacenza.

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GIULI Gaetano

(? - 1807)

Affiliato alla Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ‘21).

Nato a Frascati.

Militare.

Citato come Tenente di seconda classe di Artiglieria a cavallo nella Milizia cisalpino-italiana (1796-1814) e poi Capitano d’Artiglieria.

Uno dei primi che seguì Napoleone nelle campagne d’Italia. Poi direttore dell’Arsenale di Gardone Val Trompia, dove morì improvvisamente nel 1807.

A lui è dedicato l’Elogio funebre per il suo funerale del FØž Oratore Armandi, suo commilitone, nell’opuscolo in miscellanea “Inaugurazione dello stendardo della L. del g. 2. del m. 8. dell’anno 5807”, con alcuni cenni biografici e sentimenti spiritualistici intorno alla vita futura.

(Vedi anche Valerio Gibellini, I soldati del primo tricolore italiano, Rivista Militare 1989).  

 

 

GNUTTI Basilio

(1897 – 1971)

Affiliato alla Loggia Leonessa della Gran Loggia d’Italia ALAM di Piazza del Gesù.

33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato della Gran Loggia d’Italia ALAM di Piazza del Gesù.

Nacque a Lumezzane il 9 giugno 1897.

Industriale.

Figlio di Serafino e Teresa Nember. Fu combattente nella prima guerra mondiale, fu Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia. Fu segretario del Fascio di Lumezzane e Ispettore della Federazione fascista di Brescia (Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 178 del 30 luglio 1911-XIX, p.7).

Fu presidente della Società Laminatoio di Mainone. Consigliere delegato della Società Metalmeccanica di Lumezzane e presidente (carica che conservò fino alla morte) della Eredi Gnutti Metalli, di cui fu fondatore. È stato inoltre socio fondatore della Banca popolare di Lumezzane.

Alla morte del padre, avvenuta nel 1911, assume la direzione dell’officina paterna, instradando al lavoro i fratelli. È lui che ottiene dalle autorità che lo stabilimento venga dichiarato ausiliario e pertanto produca armi per l’esercito. Fu sotto la sua direzione, durante la seconda guerra mondiale, che l’Eredi Gnutti si incrementò fino a raggiungere il considerevole numero di dipendenti. È stato presidente della S.A. Eredi Gnutti, realizzatore e presidente dello stabilimento Silma, nonché presidente della Almac S. Giorgio, fondata nel 1946, diventata indipendente nel 1966 col nome di Almag, a seguito della redistribuzione delle quote societarie facenti capo a lui stesso e ai figli Damiano e Giorgio, presidente della eredi Gnutti Metalli. Ha ricoperto numerose cariche in società diverse.

Basilio Gnutti fu il maggiore azionista nel 1943 del Giornale di Brescia [del Popolo di Brescia, quotidiano della federazione provinciale fascista, ndr]; azioni requisite dal Cnl.

Il 26 aprile 1945 venne arrestato insieme a diversi altri prigionieri per ordine del Cln di Lumezzane, ma non essendo stati riscontrati fatti gravi a loro carico, vengono tutti rilasciati (Nella notte ci guidano le stelle, p. 223).

Basilio Gnutti fu il più politico di 5 fratelli; è stato lui e a lungo il deus ex machina dell’amministrazione comunale di Lumezzane, contando sull’appoggio incondizionato del cognato Gaetano Ghidini, che svolgeva le funzioni di segretario comunale. Con i fratelli realizzò il Villaggio Gnutti, dedicato al padre Serafino Gnutti, composto di 22 fabbricati, compresi la chiesa, i servizi sociali, l’ospedale, la casa di riposo, l’asilo infantile (Antonio Fappani, Enciclopedia bresciana e (Ricerca storica di Isaia Mensi e Angelo Moreni, I padroni della Eredi Gnutti di Lumezzane, in Angelo Moreni – Ercole on doveva morire).

Serafino Gnutti (vedi), il padre di Basilio, è stato Libero Muratore e, seguendo le sue orme, anche il figlio divenne Massone. È stato affiliato a lungo alla Loggia Leonessa della Gran Loggia d’Italia ALAM, anche oltre il ventennio fascista, cellula di ricongiungimento tra passato e presente, alla ricerca delle perdute influenze istituzionali e politiche, almeno se ci riferiamo ai nomi di alcuni influenti FFØž iscritti alla stessa Loggia massonica bresciana (rappresentanti dello stato, industriali, ecc.). Nel 1945 la Loggia Leonessa riprese la propria attività, a casa del giudice Pasquale Astiriti (vedi), in piazza del Duomo a Brescia (possibile erede biblioteca Capuano); poi la sede si trasferì in Via Musei, presso il Club Mirabella 1000 Miglia.

Il FØž Basilio riprese l’attività massonica però solo nel 1948. Raggiunse il 33° del Rito Scozzese di Piazza del Gesù e quando divenne Podestà [segretario del fascio, ndr] di Lumezzane era già iscritto a questa Officina e vi ha sempre fatto riferimento, anche durante il periodo fascista. La Loggia contava circa 40 FFØž e (secondo l’intervista rilasciata al FØž Silvano Danesi nel 1972 da Carlo Emilio Gnutti) ne facevano parte: Lino Cappellini il prefetto di Brescia, Girolamo Minervini il questore, Marco Folonari dell'antica casa vinicola, Pier Giuseppe Beretta della dinastia armiera gardonese, Enrico Comini ex federale del Partito nazionale fascista di Brescia, Pietro Wührer industriale della birra, Bulloni Pietro, avvocato e rappresentante della Dc nel Cln di Brescia, prefetto eletto deputato alla Costituente, il professor Grassi, Dino Solaini Segretario dal 1945 per oltre un trentennio dell’AIB, Enzo Castagneto fondatore della 1000 Miglia che sarebbe poi stata conosciuta come «la corsa più bella del mondo», Conte Aymo Maggi pilota automobilistico italiano e anche lui fu uno dei quattro creatori e organizzatori della Mille Miglia, Ghelfino Bargnani che costitì nel 1947 il MSI a Brescia. Prima delle riunioni di Loggia, i FFØž si trovano al Bar Adria e a piedi raggiungono la Loggia.

Riassumiamo alcune note relative all’operato fascista di Basilio e dei suoi fratelli, Pier Alfonso Vecchia, uno degli squadristi bresciani appartenenti alla «Lupi», così li descrive nel libro Storia del fascismo bresciano: “Regolarmente iscritti a Brescia furono i seguenti:… fratelli Gnutti Giacomo, Battista, Luigi, Basilio e Umberto fu Serafino. I suaccennati fratelli sostennero dure lotte con i sovversivi locali, specialmente popolari, e fu un continuo succedersi di attacchi notturni alle loro case con fucilate e sassate, di aggressioni vigliacche, di gravi minacce. In numerosi conflitti furono distribuite sante legnate, e per questo motivo i fratelli Gnutti subirono svariati processi. Particolarmente difficile fu il periodo dell’occupazione delle fabbriche. Basilio e Battista Gnutti in diverse circostanze rimasero gravemente feriti”.

Il giornale «Fiamma» del fascio di Brescia ebbe nei fratelli Gnutti altrettanti sostenitori ed attivi propagandisti: mensilmente in un certo periodo distribuirono gratuitamente circa 200 copie del giornale, pur fra i gravi rischi che incombevano.

Parteciparono ad alcune azioni in città e altrove, e durante la Marcia su Roma furono a Brescia, ove si guadagnarono il diploma e relativa medaglia commemorativa.

Dalla relazione della questura inviata al prefetto, Basilio Gnutti viene così descritto: “industriale con stabilimento in Brescia frazione S. Bartolomeo, squadrista, di buona condotta in genere senza precedenti sfavorevoli eccetto sentenza Pretore di Brescia, in data 27 febbraio 1937, non luogo a procedere per amnistia per lesioni colpose gravi. E' elemento di scarsa cultura. Iscritto al P.N.F dal primo maggio”.

La segreteria politica del partito fascista di Brescia nella persona del federale dott. Ettore D’Andrea sconsiglia la nomina a Commissario del camerata Basilio Gnutti, che ha già il peso della sua azienda e quello della carica di Segretario del Fascio e pertanto non può assumersi anche l’onere derivante dalla carica di Commissario Prefettizio presso il Comune di Lumezzane.

Quand’era Segretario del Fascio di combattimento di Lumezzane: il FØž Cav. Basilio , componente il Direttorio federale, membro della Commissione di Disciplina ecc. ecc. impone agli industriali della valle, dietro minaccia di espulsione del Partito se non eseguono gli ordini, di trattenere ai propri dipendenti un uno per cento a favore della Casa del Fascio. Naturalmente tutti gli operai sono irritati di questo, ma col timore di essere licenziati, tacciono.

Una nota a margine singolare è che Ligabue, il conosciutissimo pittore naif, ebbe rapporti con lo studente Carlo Gnutti, figlio di Basilio, il quale lo ospitò a Lumezzane dall'ottobre 1957 all'aprile 1958 e vi dipinse opere significative, specie ritratti, rimaste di proprietà degli stessi ospiti, e di cui è in questa biografia.

Passò all’Or Eterno a Bologna il 5 marzo 1971 all’età di 74 anni.

 

 

GNUTTI Serafino

(1863 – 1911)

Affiliato alla Loggia Arnaldo.

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 208).

Nacque a Lumezzane nel 1863.

Secondo la testimonianza resa a Silvano Danesi da Carlo Emilio Gnutti, per il quale alla Massoneria di orientamento zanardelliano (Loggia Arnaldo), apparteneva anche il nonno Serafino Gnutti (Silvano danesi, Liberi Muratori in Lombardia – La Massoneria lombarda dal ‘700 ad oggi, Edimai,1995 p.208).

Figlio di Giacomo (il fondatore della dinastia) e di Elisabetta Saleri. (Antonio Fappani, Enciclopedia bresciana, voce Gnutti Serafino).

Nominato alla morte del padre tutore dei fratelli, continuò e sviluppò l’attività paterna producendo spade e sciabole e mirando alla lavorazione in serie.

Partecipò attivamente alla vita pubblica e fu sindaco di Lumezzane S. Apollonio.

A Lumezzane ottenne l’ufficio telegrafico (1902) e la caserma dei carabinieri, fondò e fu presidente dell’Asilo infantile.

Sposò Teresa Nember ed ebbe nove figli fra cui Giacomo, Battista, Luigi, Basilio (anch’egli Lbero Muratore, vedi), Umberto, che cresciuti con lui in armeria e in officina ne continuarono l’opera imprenditoriale.

Tale attività fu resa possibile anche dal fatto di aver associato all’azienda il fratello Andrea.

Serafino Gnutti seppe collegare la sua attività sia alle iniziative statali (Arsenale di Brescia, Fabbrica d’armi di Brescia) che a quelle degli imprenditori privati (Franchi, Gregorelli, Perez, Toschi, Castelli ecc.).

Proprietario col fratello Andrea della S.A. Eredi Gnutti, favorì la diramazione della famiglia con cinque dei suoi figli: Giacomo (1891-1965) che a sua volta ha Serafino (1916-1941) medaglia d'oro al V.M. e Franco (1921) cui passa il 25% della Eredi, Battista con il figlio Paride (1926) cui passa un 25% della Eredi; Luigi (1896-1972) con il figlio Ferruccio (1923-1974) e i nipoti Amedeo (1967) e Luigi (1958), ad ambedue dei quali passa un 25% della Eredi; Basilio (1897-1971) con i figli Carlo Emilio (1923), Vito (1939), Serafino (1944) ai quali passa la Co.im.bre.; Umberto (1900-1982) con i figli Damiano (1931) e Giorgio (1938) cui passa la Almag. Gli Gnutti divennero proprietari con i Pareto del Palazzo Salvadego di via Dante 17-29 a Brescia e di numerosi altri immobili e arricchirono le loro case con opere di artisti moderni fra cui quelle del pittore naif Ligabue (vedi ritratto di Basilio Gnutti). Dalla famiglia Gnutti provenne padre Giacinto (Lumezzane,1874 - Gargnano, 16 aprile 1929), Missionario in Libia dal 21 settembre 1913.

Le notizie relative all’origine della società della famiglia Gnutti sono confuse, anche se da pubblicazioni ufficiali dell’impresa il fondatore fu Giacomo Gnutti, che avviò i lavori della fucina nel 1860, in mezzo a notevoli difficoltà, con una produzione limitata e discontinua e con mezzi inadeguati.

La documentazione presso la Camera di commercio individua l’avvio della società dopo la morte di Giacomo, che morì nel gennaio del 1897, lasciando otto figli: Serafino (il nostro), Angelo, Benedetto, Eugenio, Alessandro, Andrea, Emilia e Maria. L’anno dopo i fratelli maschi della “Ditta Gnutti Serafino e fratelli” nominavano “procuratore speciale” Serafino, così che rappresentasse ed esercitasse la gestione dell’impresa a nome dei fratelli e della madre Elisabetta Saleri, tutore legale dei minori. L’impresa in questa occasione modificava la ragione sociale in “Ditta Serafino e fratelli Gnutti fu Giacomo”.

Nei primissimi anni del ‘900 la composizione della proprietà mutava con il recesso dalla ditta di famiglia, a favore degli altri fratelli, di Benedetto. Nel 1908 recederà anche Eugenio, mentre Alessandro lascerà la ditta verso la fine degli anni venti. Tre anni dopo invece per la prematura morte di Serafino, che fino all’età di 47 anni aveva guidato la società, l’impresa modifica nuovamente la denominazione in “Serafino e Andrea Eredi Gnutti di Lumezzane S. Sebastiano”, diventando società di fatto. L’attività svolta rimaneva quella di “industria delle armi bianche da guerra e da scherma da teatro, ecc. ed affini”.

I proprietari erano oltre ad Andrea, fratello del defunto Serafino, i figli di quest’ultimo: Giacomo, Battista, Luigi, Basilio (che diverrà Massone, vedi) e Umberto, che fin dalla giovane età avevano frequentato la fucina, iniziando ben presto a lavorarci.

L’azienda che, alla morte di Serafino, aveva indubbiamente bisogno di trasformazioni per riuscire ad adeguarsi ai nuovi mezzi di difesa che si andavano incessantemente modificando, passò così dalla produzione esclusiva di armi bianche a quella della realizzazione di parti di fucile e di parti meccaniche di altre armi, ponendosi fra le maggiori ditte fornitrici dell’esercito, posizione che rafforzò soprattutto durante la prima guerra mondiale.

Nel 1939-40, da parte della famiglia Gnutti, venne realizzato un intero villaggio, dedicato a Serafino Gnutti, composto di 22 fabbricati, compresi la chiesa, i servizi sociali, ecc.

Passò all’OrØž Eterno il 15 aprile 1911 all’età di 47 anni.

 

GOLGI Camillo (Bartolomeo Camillo Emilio)

(1843 – 1926)

Massone “dormiente”.

Nacque a Còrteno (Corteno Golgi in suo onore dal 1956) in alta Val Camonica (Brescia) il 7 luglio 1843.

Medico biologo, accademico, premio Nobel per la Medicina 1906, uno dei più grandi scienziati italiani degli ultimi due secoli.

Nel libro di Antonio Stefanini, edito da La Compagnia della Stampa: “Camillo Golgi – Il Nobel nato tra i monti”, si accenna, su base documentaria, a particolari biografici sconosciuti, tra cui Golgi massone “dormiente”.

I Liberi Muratori bresciani sentono la loro grandezza legata alla grandezza dell’uomo che onorano e sentono quanto profondamente quel grande FØž sapesse farsi amare dagli umili della sua terra camuna, che egli pure amava affettuosamente.

A onor del vero nell’intervento alla Camera del 22 gennaio 1926 l’onorevole Morelli Eugenio nel suo discorso di commemorazione del senatore Golgi per la sua morte, tra i tanti elogi affermò: “…Voglio ripetere quanto poco fa da altissime persone mi venne confermato, che in un Congresso a Brescia, quando un gruppo di giovani insorse poiché non volevano ammettere che nella «Dante Alighieri» albergasse e comandasse l’espressione massonica, si vide Golgi capeggiare il gruppo giovanile antimassonico...[affermazione non comprovata da fatti e nome dei cosiddetti testimoni]”;  ricordiamo che la legge contro la Massoneria entrò in vigore il 26 novembre del 1925 e segnò l’inizio della fine di tutte le libertà civili, pertanto per potersi fregiare esibire internazionalmente questa nobile figura di medico massone, bisognava pur screditarne la sua appartenenza.

Dopo un iniziale e breve intervallo come ordinario di anatomia all’Università di Siena, ricoprì a lungo il doppio incarico di professore di istologia e patologia generale all’Università di Pavia. Fu, qualche settimana prima del F.: Giosuè Carducci, il primo Italiano in assoluto a essere designato nel 1906, dall’Istituto Karolinska di Stoccolma, per l’assegnazione del Premio Nobel.

Nella sua vita ha ricevuto numerosi riconoscimenti ed onorificenze: Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia, Cavaliere dell'Ordine Pour le Mérite dell’Impero tedesco, un cratere sulla luna, gli sono state inoltre intitolate strade, collegi, licei e, naturalmente, Logge massoniche.

A Corteno il padre Alessandro, si trasferì appena laureato come medico condotto. Qui Camillo frequentò le scuole primarie e rimase per circa quindici anni. Nello stesso periodo studiò anche a Edolo e poi a Lovere (BG).

Rimase per tutta la vita profondamente legato ai luoghi d’origine, nei quali tornava molto spesso.

Terminati nel 1865 gli studi a Pavia e laureatosi in Medicina con la tesi “Sull’eziologia delle malattie mentali”, discussa con Cesare Lombroso, il celebre antropologo e psichiatra, vicino agli ambienti massonici, anche se non risulta che sia mai stato iniziato.

Entrò nel laboratorio istologico fondato da Paolo Mantegazza e diretto da Giulio Bizzozero, che sarà suo maestro di ricerca.

Per l’urgenza di trovare un lavoro sicuro e pressato dal padre, il FØž Camillo decise di partecipare al concorso per un posto di primario chirurgo presso le “Pie Case degli Incurabili” di Abbiategrasso; vinse il concorso e gli venne riconosciuto come merito speciale dei sanitari il potersi occupare degli studi anatomo-psicologici.

Come laboratorio di ricerca usò una piccola cucina rudimentale, con un microscopio e pochi strumenti. Proprio durante il periodo di Abbiategrasso si contraddistinse per la grande attività di ricerca e in questo senso fu essenziale la sua amicizia con Bizzozero, che lo aiutò a mantenere vivo l’interesse per l’istologia e la vicinanza all’università. In quella cucina allestì un laboratorio di istologia in cui, nel 1873, mise a punto la rivoluzionaria “reazione nera” (metodo di Golgi).

Questo metodo permette di colorare selettivamente le cellule nervose e la loro struttura organizzata. La sua scoperta venne conosciuta e apprezzata nella dovuta misura solo molti anni più tardi, soprattutto per merito del suo principale mentore, il patriarca della biologia ottocentesca Rudolf Albert von Kölliker.

Si trasferì a Pavia, ottenne le cattedre ordinarie di Istologia e Patologia generale, indi fu nominato rettore dell’Università, incarico che ricoprì a più riprese (1893-1896 e 1901-1909).

Ebbe come allievo tra i tanti anche Padre Agostino Gemelli, al secolo Edoardo, nato nel 1878 in una famiglia agiata legata alla massoneria. Durante gli anni universitari a Pavia del Gemelli, si sviluppò una polemica da parte socialista e radicale contro Camillo Golgi, che, nonostante le sue idee positiviste e anticlericali, era considerato un reazionario; l’allievo Gemelli prese le difese del suo maestro e cominciò ad allontanarsi gradualmente dal partito socialista, a cui aveva aderito seguendo le idee di Turati, finché non ne venne espulso.

Nella sua lunga e indefessa vita di ricercatore il FØž Camillo compì anche altre importanti scoperte. Ad esempio nel campo della malariologia, dove studiò e chiarì le fasi di sviluppo e riproduzione del Plasmodium malariae, formulando la “Legge di Golgi”, che consente di trattare e guarire gli infetti al momento giusto con il chinino. Il pubblico non tributò a Golgi l’onore e il plauso meritato per la scoperta sulla malaria. Pochi anni dopo la scoperta del parassita, quando taluno ancora ne metteva in dubbio l’esistenza, egli ne differenziò le specie; studiò il ciclo della febbre terzana e della quartana, dimostrò che l’accesso febbrile era espressione del ciclo vitale del parassita stesso. Insegnò per qual ragione il chinino avesse effetto curativo e consigliò il momento nel quale il medicamento doveva essere propinato.

Studiò e descrisse poi la precisa anatomia e la funzione delle terminazione nervose dei tendini, dette corpuscoli del Golgi, e compie importanti studi sui reni, la corea di Huntington, i bulbi olfattivi, ecc.

Si dedicò anche all’amministrazione pubblica, ricoprendo tra le altre la carica di assessore all’igiene nel Comune di Pavia. Fu anche, per lungo tempo, membro e poi presidente del Consiglio Superiore di Sanità. Propose la costruzione del nuovo Policlinico San Matteo e lottò strenuamente perché l’ateneo pavese mantenesse e accrescesse il suo già secolare prestigio. Con il Nobel, Golgi raggiunse il massimo della fama internazionale e la sua attività di ricerca non cessò. Inoltre, durante la Prima Guerra Mondiale diresse l’ospedale militare, allestito nell’antico Almo Collegio Borromeo di Pavia e promosse il trattamento riabilitativo dei feriti di guerra, creando un centro per la riabilitazione delle lesioni al sistema nervoso periferico.

Ignorando il declino delle sue condizioni fisiche decise all’inizio di dicembre del 1924 di recarsi a Roma per sostenere la nascita del nuovo ospedale San Matteo. Infine, il 21 gennaio del 1926 le sue condizioni fisiche divennero critiche.

Passò all’OrØž Eterno a Pavia il 21 gennaio 1926 all’età di 83 anni. È sepolto a Pavia insieme alla moglie.

 

 

GRANA Andrea

(1820 - 1889)

Fratello Affiliato e fondatore della Regia Loggia Arnaldo all’OrØž di Brescia di RSAA (1868).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 120 e Antonio Fappani, Enciclopedia bresciana, ad vocem).

Nacque a Salò il 20 luglio 1820.

Avvocato, patriota e politico.

Figlio di Pietro e di Angela Castelli. Di famiglia proveniente da Salò che accumulò a Brescia grande fortuna specie per opera del fratello Angelo (Salò, 20 maggio 1824 - 15 ottobre 1896), che fu avvocato di notevole fama e fece parte del comitato insurrezionale.

Compì gli studi di diritto all’Università di Padova. Conseguita la laurea fece pratica di avvocato entrando in amicizia con i più caldi patrioti con quali partecipò ai moti insurrezionali del 1848.

Arruolatosi come volontario combatté a Castel Toblino, dove vide cadergli accanto Ventura Basiletti. Compì missioni delicate fra cui una ad Arona con agenti piemontesi per concordare le modalità dell’insurrezione del 1849.

Fece parte della sinistra democratica. Il 5 agosto 1869 sottoscrisse i principi del famoso “Programma”  zanardelliano (con Francesco Cuzzetti, Bonaventura Gerardi, Francesco Glisenti, Berardo Maggi e qualche altro) e poi verso la metà di febbraio 1860, aderì al “Circolo Nazionale” fondato dal FØž Giuseppe Zanardelli con più precise finalità politiche, nell’imminenza delle elezioni parlamentari (Elena Sanesi, Giuseppe Zanardelli dalla giovinezza alla maturità, Ateneo di Brescia, 1967, p. 81, 82, 86, 105)

Nel 1862 fu tra i fondatori della Società di mutuo soccorso.

Nello stesso anno divenne consigliere e assessore comunale fra i più attivi.

Fu delegato erariale e consulente legale delle ferrovie.

Fu poi avvocato fra i più stimati del Foro di Brescia con studio nell'attuale via Gabriele Rosa ove ora è ospitato il clero quiescente.

Secondo un’informativa del Prefetto di Brescia al Ministero degli Interni del 17 giugni 1868 il FØž Andrea è stato “liberale piuttosto avanzato” e presidente [della Loggia].

Passò all OrØž Eterno a Brescia il 5 gennaio 1889 all’età di 69 anni.

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GRANDINI Giovanni

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58, 63 e 359).

Avvocato di Brescia ancora vivente nel 1831. “Sospetto come liberale : è molto prudente, ma non sa del tutto nascondere le sue convinzioni liberali. Ha notori rapporti con una donna maritata” (Archivio Storico Lombardo, Luzio, ad vocem 338).

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui, il nome del Grandini Giovanni non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

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GRASSO CAPRIOLI Filippo

(1886 – 1966)

Fratello Maestro Venerabile della Regia Loggia Arnaldo all’OrØž del Mella, e poi Maestro Venerabile della Loggia Ettore Busan n.57 del Grande Oriente d’Italia.

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 206, 208).

Medico.

È inattendibile l’annotazione del Fappani in cui si afferma che il FØž Filippo fu dal 1921 al 1950 “Gran Maestro 33 della Loggia Massonica di Brescia "Oriente del Mella", sia perché Gran maestro è una carica elettiva di un Ordine della Massoneria azzurra, mentre 33 è l’ultimo grado di un Rito, il RSAA, e le due cariche coincidono solo nella Gran Loggia ALAM di Piazza del Gesù (dal 1961 con il FØž Ghinazzi, che riunì le due cariche di GØž MØž e SovrØž GranØž CommØž del Rito, (le due cariche coincidono anche in altre Gran logge spurie e illegittime), sia perché “Oriente del Mella” non può essere il nome di una Loggia, ma è la cosiddetta sua ubicazione territoriale.

È stato l’ultimo Venerabile della Regia Loggia Arnaldo, all’OrØž del Mella, prima della soppressione imposta dal fascismo (Antonio Fappani, Enciclopedia bresciana, voce Grasso Filippo).

Nacque a Conidoni di Briatico (Catanzaro) 15 dicembre 1886. Figlio di Giuseppe e di Giuseppina Grasso. Si laureò in medicina e chirurgia a Napoli, sotto la guida del prof. Cardarelli, fu capitano di cavalleria nella I guerra mondiale in Macedonia e poi, dal 1918 al 1925, fu primario chirurgo dell'Ospedale Militare di Brescia. 

Nel 1921 effettuò i primi esperimenti di trapianti di preperitoneali di ipofisi all’Università di Vienna con il prof. Eiselberg. Compì studi e pubblicazioni sulla T.B.C., sulla pastorizzazione del latte, sul tracoma, ecc. Compì, fra i primi, cure e studi sull’elettroriflessoterapia ed esperimenti di urografie con mezzi di contrasto endovena.

Aderente al Partito nazionale fascista dalla sua fondazione, Filippo Grasso, 33° grado del Rito Scozzese, ne venne espulso nel 1928.

Nel 1933, con l’indiano Negru ed il rappresentante scientifico dell’Unione Sovietica, presentò una memoria al Congresso di elettroradiobiologia a Venezia.

Aprì una sua clinica privata a Brescia.

Subì la prigionia da parte della Repubblica sociale italiana. Successivamente aderì al Psdi.

Ritornato per qualche tempo al paese d’origine, fondò a Briatico la Cooperativa Pescatori “Vittorio Grasso” del P.S.D.I.

Il 3 novembre 1920 sposò la contessa Camilla Caprioli da cui ebbe quattro figli (tra cui Adriano, ultimo pittore bohèmien, definito “l’artista eretico del colore”) e due figlie e che gli portò in eredità il palazzo di via Grazie, 19 a Brescia (poi Inselvini) e il bel palazzo Caprioli di Sale di Gussago (poi Baratti), “luogo dove l’arte, la filosofia e la spiritualità s’incontrano al fine di crescere come persona”, dice oggi l’erede della dinastia: “La nonna Maria mi disse una notte in sogno: «Margherita tranquilla, alla fine non sono importanti le credenze, le religioni e i dogmi. L’unica cosa che conta è la solidarietà».

La loggia Ettore Busan risulta attiva negli anni Cinquanta e Sessanta e le riunioni dei suoi aderenti avvenivano in casa di Filippo Grasso, nel palazzo Caprioli (quello di Brescia, via Grazie 19). Testimonianza dell’attività, ma anche della difficoltà interna della LØž Busan, è una lettera di convocazione di riunione di Loggia del 1957; la convocazione straordinaria, per il 21 dicembre 1957 alle ore 20,30, era per mettere “in discussione l’opportunità o meno di mantenere in vita questo nostro sodalizio nella forma e nella sostanza, sì come fino ad oggi è tentato di vivere”. Filippo Grasso, che firmò la convocazione, lamenta nella premessa: “Una crisi materiale e spirituale tenta d’investire il nostro Istituto e non risparmia la base (Lettera, di proprietà privata, vista dal FØž Silvano Danesi, e confermata nel suo sito web loggialiberopensiero.wordpress.com).

Significativo delle difficoltà della ripresa dei lavori massonici, dopo anni di contatti sporadici e di solitarie speculazioni intellettuali, è il racconto della decisione di chiudere, agli inizi degli anni Sessanta, la Loggia (testimonianza resa sempre al FØž Silvano Danesi da un affiliato alla Ettore Busan). La presenza di Filippo Grasso, secondo la ricostruzione dell’avvenimento fatta all’autore da un associato alla loggia, era preponderante sul dialogo interno. Il fatto che la sede della Loggia fosse in casa del Maestro inibiva gli aderenti dal prendere posizioni apertamente contrarie a quella del Venerabile storico, che manteneva la discussione prevalentemente sulle origini iniziatiche della Massoneria e sulla sua derivazione dalla tradizione dei Cavalieri Templari: argomenti di indubbio interesse esoterico ma che, a parere di molti, avrebbero dovuto lasciar luogo a ricerche più legate all’attualità di un Paese in piena fase di ricostruzione.

Ancora una volta, in sostanza, l’attività massonica veniva, in omaggio ad una tradizione tipicamente italiana, richiesta di impegni profani, fonte di divisioni e di lacerazioni spesso esiziali. Durante una riunione, di fronte alla palese non condivisione dei più per i suoi metodi di conduzione dei lavori, Filippo Grasso – stando ancora alla testimonianza diretta al FØž Silvano– propose la demolizione delle Loggia. La proposta venne subito fatta propria dall’Oratore e messa in votazione. La maggioranza decise per il sì e la Loggia venne così sciolta.

La ricostruzione tuttavia appare alquanto imprecisa, probabilmente riduttiva dell’aspetto relativo all’osservanza della “tradizione templare” ed iniziatica che Filippo Grasso tendeva a mantenere viva e indicativa solamente delle profonde diversità di opinioni e delle tensioni esistenti nella Busan. La Loggia infatti, stando ai documenti ufficiali, sopravvisse, anche se di poco, al suo storico Maestro Venerabile. Filippo Grasso morì il primo di marzo del 1966, mentre la Ettore Busan 57 risulta presente nel 1967 nell’elenco delle Logge italiane del Grande Oriente d’Italia [List of lodges masonic – fotocopia in Atti Commissione parlamentare P2], elenco dal quale si evince anche la totale assenza di Logge nel 1970.

Passò all’OrØž Eterno a Brescia il 1 marzo 1966 all’età di 79 anni.

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GRETTER Domenico

(1775 - ?)

Fratello della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 63).

Nacque a Castagné di Valsugana (Trento) nel 1775. Magistrato.

Giudice patrimoniale a Calliano durante il Governo bavarese (1806-1810).

Nel 1808 fu avvocato a Pergine. Passò qualche tempo a Milano e tornò a Trento come Giudice della Corte di Giustizia, fu membro del Consiglio generale del dipartimento dell’Alto Adige [Trento] (vedi Decreto di Eugenio Napoleone 11 settembre 1810).

Nel 1813 sposò la figlia del FØž Domenico Ostoja Primo presidente della Corte di giustizia di Verona e Maestro Venerabile della Reale Loggia Amalia Augusta di Brescia (vedi). Fu egli stesso membro della Loggia e per questo fu svolta nei suoi confronti un’inchiesta ordinata dal governo.

Caduto il Regno italico e calmatesi le acque della politica divenne Giudice in Brescia con la funzione di Consigliere di Tribunale (Studi Trentini, 1925, fasc. 4, p. 330; A. Zieger, I Franchi Muratori del Trentino e A. Luzio, La Massoneria sotto il regno italico, ecc, Milano 1918, p.102).  [Conferma] a 54 anni (1829) fu Consigliere di Tribunale a Brescia. “Infermiccio e perciò di nessun utile al servizio. Si ha da buona fonte che appartenesse alla Loggia di Trento” (Archivio Storico Lombardo, Luzio, ad vocem 338).

Ancora vivente intorno al 1831 (secondo il rapporto Torresani edito dal Luzio nell’Arch. stor. lomb., 1917 ed in considerazione della vendita proprietà immobiliari a Pergine Valsugana, vedi Editto del Giudice Distrettuale d’Ampezzo, Cortina 12 giugno 1831 in Il Messagiere Tirolese).

 

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GUERRINI Luigi

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Nulla sappiamo di questo FrØž mancando notizie certe su di lui, il suo nome non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

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GUERZONI Giuseppe

(1835 – 1886)

Affiliato alla Loggia “I Rigeneratori del 12 gennaio 1848 al 1860 Garibaldini” del Rito Orientale di Memphis all’OrØž di Palermo.

Iniziato nel luglio del 1862, alla vigilia dell’impresa di Roma da Giuseppe Garibaldi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.

Nacque a Calcinato (Brescia) il 27 febbraio 1835.

Politico, patriota, combattente garibaldino, scrittore, drammaturgo e il maggior biografo di Garibaldi.

Fu allievo al liceo di Mantova di don Ferdinando Bosio, patriota, che gli inculcò gli ideali risorgimentali.

Nel 1849 fuggì di casa per partecipare alla difesa di Brescia, assediata dagli austriaci.

Nel 1856 si laureò in Filosofia all’Università degli Studi di Pavia e si trasferì a per non prestare servizio presso l'odiato esercito austriaco.

Rimasto vedovo andò a Milano dove cominciò l’attività di scrittore. 

Nel 1859 nel corso della Seconda guerra di indipendenza italiana combatté come tenente della terza compagnia dei Cacciatori delle Alpi  capitanata da Carlo De Cristoforis e a San Fermo della Battaglia fu ferito ad una spalla e decorato al valore.

Nel 1860 a Brescia ebbe l’incarico di “Arruolatore di volontari”; la Lombardia, centro vivo di cospirazione antiaustriaca e di patriottismo, fu presente nell’organizzazione, nel sostegno e nella partecipazione diretta di tantissimi volontari all’impresa del FØž Giuseppe Garibaldi.

Tra i lombardi si distinsero i liberi muratori, che reclutarono volontari e raccolsero fondi, come a Milano, dove funzionava un comitato presso la Loggia Insubria, o a Brescia, dove si distinse il FØž Giuseppe Guerzoni che, con la collaborazione di un comitato del quale facevano parte Francesco Glisenti, Nicola Sedaboni e il FØž Antonio Legnazzi, organizzò una raccolta di fondi alla quale aderirono varie istituzioni cittadine, e raccolse 137 volontari.

Anch'egli seguì Garibaldi verso la Sicilia, ma sbarcò poi a Talamone agli ordini di Zambianchi, con il compito di far insorgere il Lazio e creare così una manovra diversiva conosciuta come “la Diversione del Zambianchi”, terminata nell’insuccesso.

Si recò in Sicilia con la Spedizione Medici e prese parte alla Battaglia di Milazzo, dove si distinse venendo promosso maggiore e decorato con una seconda medaglia al valore, combatté poi fino a Capua e alla Battaglia del Volturno.

Nello stesso anno, 1860, trasferì la sua residenza a Castel Goffredo, dove il padre Lino fu nominato segretario comunale (rimanendovi sino al 1870, quando emigrò a Montichiari nel bresciano).

Il 3 luglio 1862 a Palermo, Guerzoni fu affiliato alla massoneria del Rito Orientale di Menphis (nella Loggia “I Rigeneratori del 12 gennaio 1848 al 1860 Garibaldini”, della quale era Maestro Venerabile Emanuele Sartorio), insieme a lui furono iniziati anche tutti gli altri membri dello Stato maggiore della spedizione finita ad Aspromonte: fu lo stesso Garibaldi, nella veste di Gran Maestro, a firmare la proposta di ammissione regolare «ai misteri dell'Ord:. M:. in alcune delle RR:. LL:. poste sotto l’O:. di Palermo». «E a tal fine con gli altri poteri a me conferiti – aggiungeva – gli dispenso dalle solite formalità» (Garibaldi massone, del FØž Ed Stolper).

Terminata la spedizione dei Mille, tornò a Torino e riprese l’attività giornalistica; il ministro Urbano Rattazzi, gli offri l’ufficio di suo segretario e Guerzoni accettò fino ai fatti di Sarnico (la sommossa mazziniana organizzata nella primavera del 1862 da un centinaio di insorti, capitanati dal patriota Francesco Nullo, con l’appoggio di Giuseppe Garibaldi, coll’intento di penetrare armati in Trentino e provocare l’insurrezione di quelle popolazioni contro gli Austriaci, ma furono bloccati con la forza dal governo), l’ennesima trappola che fu ordita ai danni di Garibaldi.

Il FØž Guerzoni rompe ogni cordiale rapporto col Rattazzi e segue Garibaldi a Caprera, a Palermo, in Aspromonte.

Ai fatti vergognosi del regio esercito e di Cialdini, quando tentarono nel 1862 di uccidere Garibaldi in Aspromonte, seguì la reclusione di Guerzoni al forte di Bard, mentre Garibaldi, con una pallottola nel malleolo, rimase quaranta giorni in galera a Varignano. 

Nell’estate del 1863, con Giacinto Bruzzesi, fu a Bucarest in rappresentanza del Partito d’Azione, dove svolse una missione come emissario mazziniano, nel tentativo di convincere i rivoluzionari romeni ad una intesa con gli ungheresi.

Tra il 1863 e il 1865 Giuseppe Mazzini gli indirizzò da Londra quattro lettere, insieme ad altre inviate a Garibaldi (di cui Guerzoni era segretario) nel periodo in cui entrambi visitarono l’Inghilterra, dal 3 al 28 aprile 1864.

Nel 1866 partecipò alla campagna garibaldina durante la Terza guerra di indipendenza, assegnato inizialmente in fase di mobilitazione come maggiore del 2º Reggimento del Corpo Volontari Italiani, poi allo stato maggiore di Garibaldi.

Nel 1867 poté essere testimone della ritirata garibaldina nel corso della Battaglia di Mentana contro le truppe francesi e pontificie armate degli efficienti fucili Chassepot: «un combattimento tra gente che fuggiva e gente che non avanzava».

Nel settembre 1870 partecipò alla campagna per la presa di Roma come volontario al seguito della colonna Bixio che occupò Civitavecchia. Fatti descritti nel saggio pubblicato dopo pochi mesi dalla presa di Roma sulla rivista Nuova Antologia, vol. XV, 1870.

Fu deputato nel collegio di Manduria (Taranto) dal 1865 al 1874, anno in cui ebbe la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Palermo, da dove passò poi a quella di Padova. Finisce la carriera a Padova dopo il 1875.

Malato, si ritira a Montichiari dove scrive la famosa biografia di Garibaldi.

Dispose di esser tumulato alla sua morte a Varese con semplici parole “un sasso serbi il nome”; con la città di Varese il FØž Guerzoni non aveva legami, se non di carattere sentimentale; fu qui che il 26 maggio del 1859 ebbe il battesimo di fuoco.

Giuseppe Guerzoni scrisse dei drammi, degli studi critici e delle biografie, ricordiamo: La vita di Nino Bixio: con lettere e documenti, Firenze, Barbera 1875 e Garibaldi: con documenti editi e inediti, Firenze, Barbera 1882; La tratta dei fanciulli, Milano, Treves 1869.

Per approfondimenti vedi la sua biografia: Angela Luisa Bianchi, Giuseppe Guerzoni. La vita e l’opera letteraria, Societa editrice F. Perrella, 1928.

Passò all’OrØž Eterno a Montichiari (Brescia) nel 1886 all’età di 51 anni e fu sepolto nel Cimitero monumentale di Giubiano a Varese, in base alle sue volontà.

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