top of page

Liberi Muratori

bresciani - L

LANA DE’ TERZI Antonio Giacomo

(1780 - 1859)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21 p. 58 e A. Fappani, Enciclopedia bresciana, voce Lana De’ Terzi Antonio).

Nacque a Brescia il 25 luglio 1780.

Militare napoleonico, conte di Borgonato.

Figlio del conte Luigi Antonio e di Innocenza Franchini (non nobile, ma figlia di un modesto commerciante). Ebbe sei sorelle e nessun fratello. Il padre Luigi Antonio era l’unico figlio, frutto di amori adulterini di Ignazio Lana De’ terzi con Anna Marchi, moglie di Pietro Michieli suo dipendente; morto il Michieli si sposarono e Luigi Antonio venne legalmente riconosciuto e legittimato a 35 anni con decreto del Governo veneto del 5 settembre 1789, per dargli accesso al Consiglio Generale di Brescia e il diritto di successione nel feudo di Sanguinetto e nell’eredità paterna.

I Terzi (de) Lana sono una famiglia originaria dal paese di Terzo nel Bergamasco da cui prese il nome, pur conservando l’antico «de’ Lana». Anzi il vero cognome è quest’ultimo, o «de’ Lanis» o semplicemente Lana, ma la consuetudine anticamente lo ha fatto posporre all’indicazione del paese di origine. Sulla fine del Trecento i Lana, che si stabilirono in Franciacorta in feudi monastici e già comparvero presto come cittadini bresciani in una posizione assai elevata.

Il FØž Antonio Giacomo, dopo essere stato a nove anni presso un sacerdote, don Giovanni Aliprandi di Monterotondo e a Lodetto e nel Collegio Mariano di Bergamo dei Gesuiti, fu nell’Accademia di don Paolo Falsina di Brescia, dove ebbe come professori don Andrea Zecchi e l’abate Antonio Bianchi.

Conquistato dagli ideali giacobini a 16 anni, il 1 maggio 1797 entrò come tenente dei Cacciatori a piedi. Fu a Salò, Toscolano, Vesio, Bagolino ecc. e poi in Valtellina. Presentato dal padre al generale Messena, fu caro a questi che lo arruolò nell’esercito napoleonico, in cui seguì la carriera militare, conquistando onori e ricompense nella guerra di Spagna, assieme al “malfrancese”.

Fu massone attivo.

Tornato in famiglia, sposò nel 1812 la contessa Lucrezia Foresti di Adro, dalla quale ebbe nel 1815 il figlio Ignazio (omonimo del nonno, sarà un personaggio fuori dal comune di cui val la pena leggere la biografia, avrà legami con giovani patrioti come il FØž Gabriele Rosa; si porterà spesso in Piemonte facendo da tramite tra i patrioti lombardi e il FØž Benso conte di Cavour, che avrà sempre in grande stima. Dopo l’unità d'Italia seguirà da vicino la vita politica ed amministrativa; sarà cavouriano moderato e antizanardelliano accanito e si schiererà contro il monumento ad Arnaldo, che considererà un’offesa al sentimento religioso, nel 1863 avrà un duello col FØž avv. Botturelli, fondatore della Sentinella Bresciana).

Il FØž Antonio Giacomo fu in ottima amicizia con il conte Tullio Dandolo e la sua famiglia, avviò con lui una Società bacologica che fallì, come fallì intorno al 1854 una fabbrica di laterizi aperta in Borgonato. Ebbe la gioia di salutare prima di morire il passaggio delle truppe francesi di Napoleone III e la cacciata degli austriaci. 

Passò all’OrØž Eterno a Borgonato il 4 novembre 1859 all’età di 79 anni.

 

 

LAVAUX Stefano Odoardo

(?)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Col grado di Apprendista nel 1809 (vedi Inaugurazione dello stendardo della L. del g. 2. del m. 8. dell’anno 5807).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nulla sappiamo di questo FrØž mancando notizie certe su di lui, il suo nome non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

LECHI Faustino

(1730-1800)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ‘21).

Prima di affiliarsi all’Amalia Augusta, fu membro, con Alemanno Gambara e Rutilio Calini della Loggia operante a Brescia intorno al 1770 legata alla Massoneria templare tedesca, come testimoniato dal Francovich e dal Soriga.

Nacque il 27 ottobre 1730.

Conte della nobile casata Lechi, grande mecenate soprattutto nel campo della musica e dell’arte, grande appassionato e collezionista. Faustino ereditò dal padre, Pietro Lechi, una piccola galleria di un centinaio di ottimi quadri, ma la sua Galleria, verso il 1790, ammonterà ad oltre 600 quadri (la prima di Brescia, e superiore anche per qualità a quella Avogadro, non solo, ma a molte italiane dell'epoca. Qui troviamo, per esempio, due Raffaello (lo "Sposalizio della Vergine" oggi a Brescia e la "Madonnina" a Leningrado), 12 Veronese, 3 Tiziano, 2 Tintoretto, 3 Mantegna, 3 Rembrandt, 4 Vandick, 3 Rubens, 12 Moretto, 11 Romanino, 7 Moroni, e poi Bellini, Carpaccio, ecc., oltre a strumenti musicali di Nicola Amati, Gasparo da Salò, Stradivari, Guarnieri, Maggi, Steiner ecc.; la maestosa collezione d’arte che si tramanderà fino ai primi del Novecento e che verrà poi donata al comune di Montichiari, che la trasformerà nel museo omonimo; molti dei quadri dalle celebri firme e la raccolta di strumenti musicali pregiati di Nicola Amati, Gasparo da Salò, Stradivari, Guarnieri, Maggini, Steiner, ecc. andarono dispersi durante il famigerato saccheggio austro-russo dei 1799.

Il padre di Faustino, Pietro (vedi 1691-1764), fu un noto ed illuminato Massone, definito dal Senato della Repubblica veneta come “pubblicamente benemerito”, eresse la costruzione dello splendido palazzo Lechi a Montirone. I Lechi furono un’importante famiglia nobile bresciana; risale al 1724 l’investitura del feudo di Montirone ai fratelli Pietro e Angelo Lechi da parte del vescovo di Brescia e nel 1745 si aggiunse il feudo di Bagnolo insieme al titolo comitale.

Il FØž Faustino Lechi, sposò l’8 gennaio 1765 a 34 anni Doralice Bielli (1749-1819) dalla quale ebbe 19 figli di cui nove sopravvissuti fra cui Giuseppe (vedi), Giacomo, Angelo, Bernardino, Teodoro (vedi) e Luigi (vedi).

Ebbe il titolo di conte di Bagnolo di Nogarole.

Tra i figli di Faustino vi furono militari e uomini politici, molti Liberi Muratori come lui, che assorbirono lo spirito rivoluzionario napoleonico per poi contribuire alla liberazione d’Italia (Enciclopedia delle Famiglie Lombarde, su servizi.ct2.it., Faustino).

Fu un ottimo violinista (prediligendo compositori come Haydn e Mozart ) al dire di Alberto Lumbroso (Attraverso la Rivoluzione e il Primo Impero, Torino, 1907, p. 273): «Il Lechi godeva in Brescia di grande reputazione, ed era assai stimato ed amato, tanto per il suo carattere, saviezza, liberalità e cortesia, che per la protezione che accordava alle Belle Arti. Era gran violinista, amante di pittura e raccoglitore di quadri, per cui la sua casa era il centro degli artisti e dei forestieri». Il FØž Lechi, in contatto con la corte d’Austria, ospitò varie volte la famiglia Mozart. Si hanno notizie della venuta a Brescia di Leopoldo e del figlio FØž Wolfango Amedeo Mozart nel febbraio e nell’agosto del 1771, ospiti dei Lechi. Nel febbraio si recano anche a teatro, e nell’agosto sono ancora a Brescia; nell’anno seguente Leopoldo scrive (in data 4 novembre 1772) alla moglie «Er (Wolfang) müste über Brescia gehen, und da könnte er sich schnurgerade bey Sgr. Conte Lechi melden, der ein starker Vìolinspieler, grosse Musik verstándiger, und Liebhaber ist, zu dem wir bey unserer Rückreise schnurgerad abzusteigen versprochen haben ... » (Egli - Wolfango - doveva passare per Brescia e così poteva proprio presentarsi al Sig. conte Lechi che è un grande (forte) suonatore di violino, grande intenditore e appassionato di musica, presso il quale noi abbiamo promesso di fermarci proprio al nostro viaggio di ritorno...). In autunno, e con ogni probabilità, i Mozart furono ospiti nel sontuoso palazzo a Montirone nei pressi della città, mentre, nel marzo del 1773, furono forse alloggiati nel palazzo in Corsetto S. Agata(Fonti: Rosa Barezzani, Quei simpatici colascioni, in BS, a. I, n. 1, febbraio 1986; v. BRq catalogo ad vocem).

Suo padre, Pietro volle sin dall’inizio indirizzare l’educazione del suo primogenito in modo completo (senza trascurare le proprie passioni per la musica e per la pittura). Perciò, dopo alcuni anni di prime classi presso il collegio dei nobili di Brescia, allora tenuto dai Padri Somaschi, lo inviò nel 1744 quale convittore a Bologna, nell’Istituto di S. Francesco Saverio dei Gesuiti. Qui Faustino Lechi rimase per alcuni anni, almeno sino al 1750, ed ebbe molti amici con i quali rimase sempre in corrispondenza. Per esempio, quanto alla musica, fu alla scuola del celebre Padre Martini (molti anni dopo maestro di Mozart) che lo indusse allo studio del violino in cui acquistò tale bravura da diventare per vent’anni presidente dei professori di violino bresciani. Quanto all’arte, strinse amicizia con il noto poligrafo Marcello Oretti, con l’Orlandi, e forse suggerì al proprio padre nel 1746 il nome di Antonio Bibiena per i fondali degli affreschi del salone di Montirone: né aveva trascurati gli insegnamenti della tecnica, se nel 1751 gli viene dedicata dal Ramanzini l’edizione delle opere di Cristiano L .B. de Wolff.

Tornato a Brescia, ben poche sue notizie abbiamo sino al 1764, e cioè sino alla morte del padre. Il suo carattere quieto (a differenza di quello del fratello Galliano, necessariamente doveva subordinarsi a quello irruente del padre, conte Pietro, e quindi vediamo la vita di Faustino in questi anni trascorrere in una profonda e tranquilla maturazione interiore ed intellettuale.

Certo egli diede consigli al padre sugli acquisti di alcuni quadri; certo approfondì la sua cultura e poté perfezionare il suo innato talento per la musica: e forse gli strumenti musicali che suo padre lasciò alla sua morte, erano stati acquistati per lui.

Alla morte del conte Pietro (1764) si imposero le divisioni tra Faustino e il fratello Galliano. Esse si risolsero solo nel 1768 con la divisione a metà dei terreni (3000 piò), e assegnazioni particolari: a Galliano, Montirone (dove abiterà stabilmente, salvo il diritto d’abitazione del fratello, seguendo la norma del feudo-fedecommesso maschile); a Faustino il palazzo di Brescia più il maggiorasco dell’Aspes. Indivisa la filanda della seta e del lino (esportati attraverso Bergamo in Inghilterra).

Ma la più curiosa divisione fu quella delle relazioni sociali. Mentre Galliano tenne con gran cura rapporti con Venezia e con tutti i patrizi veneti, e spessissimo li riceveva a Montirone, Faustino continuò con assiduità i rapporti con l’Austria, ed in particolare con la città di Vienna: il principe di Liechtenstein, il conte di Collalto ecc.

Una vita quindi tranquilla, attiva ed operosa nelle certezze settecentesche: controprova ne è la sua affettuosa e imperturbabile certezza della innocenza del fratello Galliano per le terribili imputazioni venete verso costui (1781); la sua felicità per la riuscita, notissima fuga di Galliano dai Piombi (1785), il suo dolore cocente per la tragica fine del fratello in Bormio (1797).

Votatosi poi alla causa francese, all’avvicinarsi degli Austriaci, nel 1799 dovette fuggire da Brescia, con la moglie e due figli minori e rifugiarsi a Genova.

Ritorsione per questa fuga fu il saccheggio delle sue case di Brescia, operato dal 21 al 23 aprile 1799 da ladri, faziosi e malfattori che guidati, indirettamente, dal generale Nicoletti comandante la piazza e (direttamente) dal suo aiutante Capitano Gian Kochl, dal prete Filippi con i suoi valsabbini e (spiace notare) da agenti delle maggiori famiglie bresciane (tutti i nomi di costoro sono registrati nell’archivio Lechi). Tutti questi ladri non desideravano lasciar perdere una così bella occasione per appropriarsi delle splendide cose di casa Lechi: “per casa Lechi non c'è redenzione” dicevano e rubavano (Antonio Fappani, Enciclopedia bresciana, alla voce Lechi Faustino).

Passò all’OrØž Eterno in esilio a Genova il 28 aprile 1800, all’età di 69 anni, qui fu sepolto nella chiesa dell’Annunziata e lo ricorda una bellissima iscrizione del Morcelli.

 

 

LECHI Giuseppe, “Joseph”

1766 – 1836

Gran Maestro del Grande Oriente presso il Regno di Napoli e fondatore del Grande Oriente d’Italia. Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 51 e 63).

Nacque al­l’Aspes (presso San Zeno di Brescia) il 5 dicembre del 1766.

Conte della nobile casata Lechi, giacobino e patriota italiano, Generale di Divisione, “Il terrore della Spagna”, intraprendente politico, Cavaliere e Com. della Corona Ferrea e della Legion d’Onore, Gran Cav. dell’Ordine delle Due Sicilie (A. Schivardi Elogio di Alberto Muzzarelli, Brescia, 1858, pag. 19).

Giuseppe fu il primogenito dei diciannove figli del conte FØž Faustino Lechi (vedi). Fu già in vita considerato uomo di grandi luci e ombre (“oscure e torbide”), temerario e spregiudicato simile in questo allo zio il conte Galliano Lechi (vedi la biografia di Lechi Faustino).

Il nonno Pietro fu un noto massone ed illuminista.

Nato cittadino della Serenissima Repubblica, appena in età venne mandato a Vienna per essere avviato alla carriera militare nell’esercito austriaco raggiungendo il grado di capitano. Sull’esempio del padre e del nonno ed influenzato dall’ambiente, è probabile che il giovane bresciano abbia aderito alla Massoneria già durante il suo soggiorno in Austria, da dove seguì lo scoppio e l’affermarsi della rivoluzione in Francia.

All’arrivo di Napoleone in Italia, influenzato anche dal fratello Giacomo, organizzò e condusse con i fratelli Teodoro e Angelo ed altri amici, tutti membri della società segreta del “Casino dei Buoni Amici”, la Rivoluzione bresciana del 18 marzo 1797.

Giuseppe entrò quindi nel governo provvisorio di Brescia ed organizzò la Legione bresciana che il Bonaparte invia in Emilia e nelle Marche e quindi nell’Italia centrale. Fu a Città di Castello che avvenne il famoso episodio della discussa donazione a Giuseppe Lechi da parte della città del quadro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, oggi conservata a Milano presso l’Accademia di Brera. Questo non fu comunque l’unico quadro che arrivò a Brescia dopo questa spedizione militare, anche perché assieme a Giuseppe c’era il giovane fratello Teodoro, grande appassionato d’arte.

Tornato a Brescia, Giuseppe entrò a far parte del Consiglio dei Juniori dal quale uscì però subito per protesta assieme agli altri bresciani.

Nella primavera del 1799 fu ancora in campagna militare in Valtellina per domare le rivolte antifrancesi. Giuseppe ne approfittò per vendicare lo zio Galliano bombardando alcune case del paese dove lo zio era stato assassinato.

Con l’arrivo degli austro-russi, dopo aver murato in casa il prezioso Raffaello, Giuseppe si ritirò con i suoi soldati a Digione partecipando alla costituzione della Legione italica nella quale assume il grado di comandante superiore, agli ordini del comandante generale Teullié.

Attraversate le Alpi con Napoleone, Giuseppe (sempre con Teodoro ed Angelo) appoggiò l’azione delle truppe Francesi percorrendo la linea delle Prealpi (Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia) per confluire poi con il grosso dell’esercito a Marengo (14 giugno 1800) dove fu nominato Generale di divisione sul campo. Proseguì poi le operazioni militari nelle Venezie partecipando alla conquista di Trento.

Dopo la pace di Luneville (9 febbraio 1801), che pose temporaneamente fine alle ostilità con l’Austria, tutto l’esercito venne riformato. Sotto il comando di Murat, le truppe della Cisalpina furono organizzate in divisioni al comando del generale Domenico Pino e del FØž Giuseppe Lechi.

Giuseppe entrò in politica, partecipò ai Comizi di Lione ed entrò nel nuovo Corpo legislativo della Repubblica italiana. Fu forse per sostenere questa sua nuova carriera che vendette per 50.000 lire il Raffaello ad un collezionista milanese, Giacomo Sannazzaro.

Strinse rapporti sempre più stretti con Gioacchino Murat, partecipando alla creazione a Milano della prima Loggia massonica di rito scozzese e di tendenze filofrancesi (sino a quel momento la Massoneria a Milano era stata filoaustriaca) denominata “Fratelli riuniti”. Qui cominciano alcuni equivoci che si trascineranno per tutta la vita di Giuseppe: chi sono i fratelli riuniti? Italiani e Francesi come pensavano allora Napoleone e Murat oppure “padani” e napoletani? Molti napoletani infatti, sfuggiti alle persecuzioni dei Borboni, furono a Milano e spingevano per una liberazione del Regno di Napoli dai Borboni. Giuseppe legò subito con loro, suscitando i sospetti del Melzi e di Napoleone, contrarissimi all’idea di un’Italia unita. E’ in questo contesto che ha luogo a Milano nel 1802 quella riunione segreta tra Giuseppe Lechi, Domenico Pino e alcuni patrioti napoletani per sollecitare l’unità d’Italia che Benedetto Croce indicherà come la data di nascita del Risorgimento italiano.

Sempre più legato al circolo murattiano, il generale Lechi aderì al Rito scozzese e diverrà Gran Maestro del Grande Oriente di Napoli[1], per poi unirsi a quei gruppi di patrioti che propugnavano l’ideale dell’Unità d’Italia, segnando così la nascita del Risorgimento italiano.

Questa situazione confusa e ambigua spiega gli avvenimenti successivi.

Nel 1804, quando il generale Saint Cyr avviò la spedizione di Napoli che porterà Giuseppe Bonaparte sul trono dei Borboni, Giuseppe Lechi (ma non gli altri fratelli Lechi) fu subito pronto ad aggregarsi e spinse le sue truppe alla liberazione delle regioni adriatiche del Regno di Napoli. I suoi successi e i suoi stretti legami con i patrioti napoletani spinsero ben presto i Francesi a sospendere le azioni delle truppe italiane nel sud rispedendole a Milano. Giuseppe Lechi al suo ritorno è ormai “napoletanizzato”.

Nel 1805 fu di nuovo a Napoli al seguito di Murat e Giuseppe Bonaparte al quale anche si legherà strettamente da amicizia e fedeltà personale.

Il 20 giugno 1805, in occasione dell’incoronazione di Napoleone, si riunirono a Milano per costituire il Grande Oriente d’Italia di Rito Scozzese Antico Accettato (RSAA) i rappresentanti delle cinque logge milanesi: Reale Napoleone, Reale Giuseppina, Eugenio, Concordia e Heureuse Rencontre e la bergamasca l’Unione. A presiedere la riunione fu il giacobino conte Pietro Calepio. A latere Vidal, membro del Consiglio dei 33 di Francia, che portava la protezione del Fratello il Grande, ossia dell’imperatore.

Fu a questo punto che il nostro FØž conte Giuseppe Lechi, Gran Maestro del Grande Oriente stabilito presso la divisione dell’armata d’Italia nel Regno di Napoli, col suo deputato Balathier e altri fratelli dello stesso Grande Oriente entrò, a riunione già avviata, ricevuto, come si narra in un volumetto della stamperie del Grande Oriente d’Italia del 1805, con tutti gli onori, sotto la volta d’acciaio delle spade brandite e annunciò di essere incaricato “di unire i due Grandi Orienti in un solo medesimo corpo” per dare alla Massoneria un unico “centro di luce” in Italia.

Venne delegato il Vidal a condurre le trattative e si invocò la nomina a Gran Maestro di Eugenio Beauharnais “o qualunque altro Principe più gli aggradi della sua augusta famiglia”.

Gli accordi tra Massoni francesi e italiani furono consacrati in un atto solenne. Venne costituito ed eretto in Italia un Supremo consiglio di Sovrani grandi Ispettori Generali del 33° grado. Il Supremo Consiglio dei 33 creò e costituì di sua sovrana autorità una Gran Loggia Generale in Italia sotto la denominazione di Grande Oriente al Rito scozzese antico e accettato che riunì tutti i riti conosciuti nei due emisferi.

Le Logge dipendenti dal Grande Oriente d’Italia erano allora tredici in tutto, di cui cinque a Milano, una a Bergamo, una a Verona (l’Arena), una a Taranto e le altre, militari, tutte a Napoli.

La costituzione del primo Grande Oriente in Italia fu dunque in gran parte dovuta al bresciano conte FØž Giuseppe Lechi, il quale, con il suo gesto, non solo si pose come padre fondatore della Massoneria italiana, ma anche come fautore dell’unità del Paese, che nella riunione dei due Grandi Orienti ebbe un significativo atto simbolico.

L’anno dopo Giuseppe, con Murat, partecipò alla seconda spedizione di Napoli e questa volta Giuseppe fu a capo di tutta l’ala sinistra dell’esercito. A Napoli i legami con Giuseppe Bonaparte e con Murat si fecero sempre più stretti, mentre si allentarono quelli con la Lombardia e con gli altri fratelli, che passarono al servizio di Eugenio di Beauharnais.

Negli anni 1808 e 1809 “Joseph” Lechi fu in Spagna al servizio di Giuseppe Bonaparte, che cedette il regno di Napoli a Murat, e, alla guida di un contingente di truppe italiane, conquistò la città di Barcellona.

Qui successe qualcosa di strano, che i biografi di Giuseppe non sanno o non vogliono raccontare. Il FØž Giuseppe prese Barcellona dopo un lungo assedio e ne diventò temporaneamente il governatore. Alla fine del 1809 rientrò a Parigi con le truppe decimate dalla malaria e ricevette da Napoleone una dote di 10.000 franchi annui. Poco dopo però venne arrestato e rinchiuso nel castello di Vincennes per le “prepotenze” e le “prevaricazioni” compiute in Spagna. Il processo viene insabbiato per non infangare l’esercito e Giuseppe Lechi viene “regalato” al suo amico e nuovo Re di Napoli, Gioacchino Murat. Il Lumbroso, uno dei pochi che si sia occupato in seguito di questo personaggio storico, parla di “accuse di orrori, malversazioni e abusi infiniti” ma conclude dicendo che “sulle colpe del Lechi non si sa bene quante e quali fossero. Denaro certamente. La pratica fu archiviata” (Paolo Colussi, I Fratelli Lechi, in storiadimilano.it/Personaggi).

Il FØž Giuseppe, tornato a Milano, ma al servizio del Murat, fu coinvolto nelle cospirazioni del generale Domenico Pino, cominciò a tramare nel complotto, probabilmente anche come rappresentante dello stesso Murat, contro Eugenio di Beauharnais e contro Napoleone.

Nel novembre del 1813, quando Murat transitò da Milano di ritorno dalla Russia, i due passarono molto tempo assieme a confabulare sorvegliati dalla polizia. Poi Giuseppe raggiunse Murat a Napoli e, al precipitare degli eventi, diventò luogotenente del re di Napoli nella campagna degli austro-napoletani contro l’esercito di Eugenio.

Il 31 gennaio 1814 Giuseppe fu nominato governatore della Toscana e in questa veste consegnò Livorno agli Inglesi, nel corso del tentativo di Murat di ottenere una pace separata con l’Austria, facendo infuriare Napoleone.

Nel 1815, infine, condusse l’ultima disperata campagna di Murat di resistenza contro gli austriaci nella Battaglia di Tolentino (2-3 maggio 1815) che costò la vita all’aspirante re d’Italia e il carcere al generale bresciano. Catturato, rifiutò di giurare fedeltà al nuovo regime asburgico e rimase prigioniero in carcere a Lubiana fino al 1818.

Al ritorno dalla prigionia, nel 1818, Giuseppe si stabilì nella villa di famiglia a Montirone (Brescia), si sposò con Eleonora, figlia del Pari di Francia Simeon e trascorre gli ultimi anni strettamente sorvegliato dalla polizia, isolato anche dai fratelli.

Personaggio “più temerario, più spregiudicato e meno scrupoloso” degli altri fratelli, come lo definisce Fausto Lechi, lo studioso pronipote di Teodoro che ha raccontato le vicende napoleoniche della famiglia nella Storia di Brescia, Giuseppe ha lasciato delle Memorie autobiografiche ancora inedite, che sono conservate manoscritte nella Biblioteca Queriniana di Brescia e che meriterebbero di essere studiate e pubblicate, viste le ombre che circondano ancora questa strana figura di soldato.

Passò all’OrØž Eterno a Montirone il 9 agosto 1836 colpito dal colera all’età di 69 anni.

 

​

LECHI Luigi

(1786 – 1867)

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 58).

Nacque a Brescia il 13 dicembre 1786.

Letterato e politico italiano.

Della nobile casata Lechi. Penultimo figlio del conte Faustino e della contessa Doralice Bielli.

Fratello minore dei due generali Giuseppe e Teodoro, anch’essi FFØž Massoni affiliati alla stessa Loggia Amalia Augusta.

Il 18 marzo 1797, poco più che decenne, assistette alla rivoluzione bresciana nella quale ebbero un ruolo di primo piano i fratelli Giuseppe, Giacomo, Angelo, Bernardino e Teodoro. La reazione austro-russa del 1799 costrinse poi la famiglia a riparare a Genova e a restarvi, in attesa del ritorno nel 1800 delle armate francesi al comando di Napoleone Bonaparte (Dizionario Biografico, Treccani).

Iscritto al collegio milanese Longone, Luigi ebbe quali compagni di scuola Alessandro Manzoni (nell’archivio di Luigi vi fu addirittura ritrovata un'opera inedita di Alessandro), il FØž Federico Confalonieri (che sarà iniziato nel settembre 1818 in Inghilterra) e il FØž Giambattista Pagani (che sarà affiliato alla stessa LØž Amalia Augusta dei fratelli Lechi).

Ultimati gli studi letterari e filosofici, passò all’Università di Pavia dove conseguì la laurea in medicina nel 1809.

A Pavia conobbe il FØž Ugo Foscolo (vedi) con il quale strinse una forte amicizia e che ebbe modo di frequentare a Brescia in occasione della pubblicazione dei Sepolcri, a opera dell’editore FØž Nicolò Bettoni.

Nel 1808 fu affiliato, come i fratelli carnali, alla loggia Massonica di Brescia “Amalia Augusta” cui dedicò la cantata Massonica La luce, Brescia 1808. Sia il Foscolo che il Bettoni frequentarono con Luigi la stessa Loggia. Fu in questi anni che Luigi studiò disegno e musica, dando buoni risultati in ambedue i campi. L’interesse per le scienze fisiche e naturali, derivatogli dall’adesione al razionalismo, lo portò nel 1810 a Parigi dove ebbe modo di conoscere il geografo A. von Humboldt e il mineralogista abate R.-J. Haüy, dal quale ebbe in dono vari minerali che, in numero di circa 200, avrebbe poi, nel 1814, regalato all’Ateneo di Brescia che lo aveva eletto socio nel 1809 e per i cui Commentari aveva pubblicato la Traduzione dal greco di Ero e Leandro, poemetto di Museo Grammatico, seguita, nel 1810, dalla versione dei Dialoghi delle cortigiane di Luciano, per l’editore Bettoni di Milano.

Al ritorno a Brescia, Luigi si dedicò alla mineralogia e alla chimica collaborando con i professori G.B. Brocchi e il FØž Claro Malacarne (vedi).

Presente nella vita sociale cittadina non meno che in quella scientifica, la frequentazione del salotto della contessa Marzia Martinengo lo pose in contatto con i più eminenti letterati e uomini di cultura bresciani, come C. Arici, G. Nicolini, G. Scalvini, G. Mompiani, i fratelli C. e F. Ugoni, l’abate FØž Antonio Bianchi, il FØž Giambattista Pagani.

A sua volta, acquistata nel 1817 l’Isola del lago di Garda, ne fece, oltre che il suo rifugio preferito, un rinomato punto d’incontro per gli intellettuali non solo bresciani, ma anche della riviera benacense e veronesi; fra coloro che si recarono all’Isola si devono ricordare i musicisti Gioachino Rossini, del quale era grande amico e Gaetano Donizetti, e la cantante Giuditta Pasta.

Fu in questi anni che Luigi, già da tempo sorvegliato dalla polizia austriaca, si avvicinò agli ambienti della carboneria.

Allo scoppio dei moti del 1821, durante un suo soggiorno a Bergamo, l’Isola del Garda fu accuratamente perquisita dalla polizia. Lo compromisero le successive ammissioni dei primi cospiratori arrestati che gli attribuirono il ruolo di esponente di primo piano dei federati lombardi.

Il 5 luglio 1823 Luigi fu arrestato nell’Isola, fu condotto prima a Brescia e poi a Milano, ma, nonostante le ripetute contestazioni, non fu possibile scalfire la sua resistenza e la sua rettitudine morale, tanto che dopo sedici mesi di carcere il giudice F.:  A. Salvotti (vedi) dovette autorizzarne nel novembre del 1824 il rilascio per mancanza di prove legali.

Dopo la liberazione gli fu concesso di recarsi all’Isola del Garda dove risiedette sino alla morte della cantante Adelaide Malanotte (31 dicembre 1832), cui da alcuni decenni il FØž Luigi era sentimentalmente legato. Era stata lei, tra l’altro, la protagonista del Tancredi di Gioachino Rossini nella versione rappresentata a Ferrara nel 1813, con il finale tragico introdotto appunto dal Lechi.

Nonostante la prigionia ne avesse minato il fisico, Luigi continuò assiduamente e con impegno i suoi studi letterari. Fu un fecondo epigrafista e numerose sono le iscrizioni da lui lasciate nel cimitero Vantiniano di Brescia.

Tra i molti suoi lavori accolti nei Commentari dell’Ateneo di Brescia vanno ricordati: un Compendio della vita di Demostene e traduzione della terza delle Filippiche (1822); le Osservazioni meteorologico-agrarie d’un’isola del Benaco (1829); un articolo Della miglior fattura dell’olio nelle nostre riviere (1834); le Osservazioni alla memoria del padre Maurizio di Brescia. “Melometria dei cantici originali della Sacra Scrittura” (1847). Frattanto, tra il 1842 e il 1845, erano apparsi nella collana milanese degli antichi storici greci volgarizzati i due volumi delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, lavoro che fu ampiamente lodato per il rigore letterario.

Allo scoppio delle insurrezioni del 1848 il Lechi fu chiamato a presiedere, nella notte del 22 marzo, il governo provvisorio bresciano; e quando, per ordine del governo centrale di Milano, fu costituita la Congregazione provinciale di Brescia il Lechi fu confermato alla presidenza guidando la Congregazione sino all’11 agosto 1848. In questi mesi, costante fu il suo impegno in difesa della città e soprattutto dei suoi concittadini per i quali operò sempre con l’intento di salvaguardarli da iniziative azzardate e tali da metterne a repentaglio l’incolumità: provvide dunque a organizzare i battaglioni dei volontari e della guardia civica, a favorire lo sviluppo delle fabbriche di armi, a emanare una legge sulla libertà di stampa.

Il ritorno degli Austriaci lo costrinse a fuggire precipitosamente e a recarsi in Piemonte insieme con il fratello Teodoro.

Amnistiato, il Lechi fece ritorno a Brescia dove riprese gli studi.

Nel 1849, allo scoppio delle Dieci giornate bresciane, pur non essendo coinvolto nella direzione del moto, fu costantemente a fianco di Girolamo Sangervasio, divenendone il più ascoltato consigliere. Ebbe inoltre l’ingrato incarico di recarsi al convento di S. Giuseppe, al fine di convincere padre M. Malvestiti a presentare al maresciallo J.J. von Haynau la capitolazione della città. Del biennio rivoluzionario il FØž Luigi lasciò un’interessante memoria.

Eletto alla presidenza dell’Ateneo cittadino il 2 gennaio 1848 e riconfermato il 22 aprile 1850, nel successivo mese di agosto vi lesse un interessante studio dal titolo Sulla tipografia bresciana del secolo XV. La sua riconferma e l’appartenenza della maggioranza dei soci allo schieramento liberale spinsero nel 1851 il governo austriaco a sospendere le attività accademiche, mentre forti pressioni erano compiute sul Lechi perché lasciasse la presidenza. Il governo autorizzò la riapertura dell’Ateneo solamente nel dicembre 1855, a patto però che a presiedere le adunanze non fosse il Lechi, ma il socio più anziano.

In questi anni di costante ostilità nei confronti dell’Ateneo da parte delle autorità, il FØž Luigi si trovò a dovere anche gestire la presentazione del nuovo statuto, motivo questo di costante attrito con il governo, a causa della volontà di quest’ultimo di avere un controllo diretto sulla vita dell’Ateneo e dell’altrettanto ferma volontà del Lechi di mantenerne l’autonomia. Le sedute furono nuovamente sospese nell’aprile 1859 e ripresero all’indomani della liberazione della città da parte delle truppe franco-sarde nel giugno del medesimo anno. Il 21 agosto 1859, il Lechi fu rieletto all’unanimità, per la terza volta, presidente dell’Ateneo, incarico che tenne sino al 1861 quando per motivi di salute fu costretto a dimettersi.

Con la liberazione della Lombardia, il 29 febbraio 1860 Luigi fu nominato senatore del Regno per gli “alti meriti patriottici”.

Nel 1867 fece dono alla Civica Biblioteca Queriniana di 220 volumi di rare edizioni di autori antichi e moderni, specialmente bresciani e di argomento militare.

Oltre che degli scritti citati, il L. fu autore di numerose altre opere citate nei Comentari dell’Ateneo bresciano.  Ricordiamo Avvenimenti accaduti in Brescia nel marzo 1849. Contributo alla storia delle X giornate di Brescia. (Da un manoscritto inedito del senatore conte L. L.), in Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1929.

Fonti e Bibliografia: Brescia, Archivio privato Lechi (in fase di ordinamento); A. Lumbroso, Il generale d’armata conte Teodoro Lechi da Brescia (1778-1866) e la sua famiglia, in Rivista storica del Risorgimento italiano, III (1898), pp. 349 s., 371-373; G. Solitro, Nuovo contributo alla storia dei processi del Ventuno, Il conte Luigi Lechi, in Rassegna storica del Risorgimento, IV (1917), pp. 1-45; G. Gallia, Commemorazione del conte Luigi Lechi, in Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1876, pp. 88-94; L. Re, Il conte Luigi Lechi nel processo del 1821, in Miscellanea di studi su Brescia nel Risorgimento, supplemento ai Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1933, pp. 171-226; Storia di Brescia, V, Indice dei nomi e degli argomenti, Brescia 1961, ad nomen; Dizionario del Risorgimento nazionale, III, s.v. (E. Michel).

Preparò una cantata per musica, da eseguirsi nella tornata solenne del solstizio d’estate del 24 giugno 1811, quando l’intera assemblea dei Massoni bresciani avrebbe acclamato al Re di Roma ed ai suoi divini parenti, Luigi Lechi, Cantata da rappresentarsi nella RØž LØž RØž Amalia Augusta all’OØž di Brescia in occasione che si celebra il S. Giovanni d’Estate, Brescia 1811. Il fratello Armandi quale Oratore compone un discorso per il suo ricevimento nell’Ordine, avvenuto il 5 agosto 1808.

Egli invece di dedicarsi alle armi, diedesi alle lettere delle quali fu distinto cultore. Fu anima del bresciano Ateneo, Società che a’ buoni studi incessantemente si consacra. Il suo amore alla patria fu indefettibile ed in ogni occasione che si presentasse ne diede prova.
Creato Senatore del Regno, finché lo stato di salute glielo permise, diè opera ad adempierne i doveri; ma ridotto allo stato d’infermità permanente, dovette astenersene esprimendo la sua dispiacenza. La sua memoria rimarrà cara certamente fra i suoi communicipali non solo, ma fra gli Italiani tutti che a lui congiunti d’affetto condividevano seco lui il patrio zelo.
” (Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 18 dicembre 1867).

Passò all’OrØž Eterno il 13 dicembre 1867 all’età di 82 anni.

​

 

LECHI Pietro

(1691-1764)

Membro di una delle prime Logge bresciane (di cui non si conosce il nome), massonicamente dipendente dal Priorato del Monferrato e probabilmente legata agli “Èlus Coëns” e con relazioni con la “Grande Loge des Maîtres” di Lione.

(Silvano Danesi, o. c. Liberi Muratori in Lombardia ecc., p. 45, sulle prime logge bresciane).

Nacque a Brescia il 20 febbraio 1691.

Fu un noto massone ed illuminista (ad nomen, Wikypedia). 

Conte della nobile casata Lechi (presente anche la variante Lecchi, anticamente detta "de Lecho").

Padre di Faustino (II) e nonno di Giuseppe, Luigi e Teodoro, tutti Liberi Muratori.

Figlio di Faustino I. Fin dal 1717 Pietro scelse l’attività politico amministrativa. Acquistò subito autorità e in quell’anno ottenne la liberazione di mercanti che erano imputati di tenere panni proibiti in Inghilterra e in Olanda.

Nel 1724 vi fu l’investitura da parte del vescovo di Brescia del feudo di Montirone a Pietro e al fratello Angelo Lechi e nel 1745 si aggiunse il feudo di Bagnolo insieme al titolo comitale. Fu Pietro che eresse la costruzione dello splendido palazzo Lechi a Montirone.

Sposò nel 1718 Francesca Maccarinelli dalla quale ebbe i figli Faustino II (vedi) e Galliano; Faustino II fu un vero mecenate e a sua volta Libero Muratore, così come i figli di questo.

Pietro fu definito dal Senato della Repubblica veneta come “pubblicamente benemerito”.

Non trascurò il proprio patrimonio ma lo trasformò da industriale in agrario (1720). Quindici delle diciotto fucine vennero vendute dai fratelli Lechi e col ricavato acquistate vaste estensioni di terre. Tre delle grandi fucine per anni rimarranno in piena attività a Lumezzane sin oltre il 1765, e una grande filanda per la seta fu è costruita all’Aspes presso S. Zeno. Fra i terreni acquisiti vi furono quelli di Montirone, per i quali Pietro ottenne l’investitura feudale dal Vescovo di Brescia (1724) e successivamente dalla Repubblica Veneta (1777) con fedecommesso e trasmissione maschile.

A partire dal 1725 Pietro Lechi assunse l’appalto dei dazi veneti per la provincia di Brescia (sale, legname da opera, ecc.). Per questi appalti (che cederà soltanto attorno al 1750) fece stampare in Brescia tra il 1720 e il 1745 molti testi esplicativi di riforma, onde mettere un minimo di ordine in quel settore. Questa sua attività multiforme gli procurò larghe conoscenze a Venezia, e molta influenza a Brescia: basti vedere con quale autorità definì in pochi giorni e senza possibilità di appello la annosa lite lumezzanese sulla preminenza della Pieve su S. Apollonio (1727). Nei diplomi laudativi che gli vennero donati dalla Pieve compare, miniato, per la prima volta lo stemma Lechi sormontato dalla corona “antica”. Infine fu nominato a Brescia Console (giudice) dei Mercanti (1730) e Sindaco degli stessi (1731).

Ma già da qualche anno i suoi sguardi si volgevano oltre i confini della provincia: e più precisamente, oltre a Venezia dove fu notissimo ed ebbe importanti conoscenze nel Governo, verso il Ducato di Milano, il Mantovano e soprattutto Vienna (1728).

In questi delicatissimi rapporti diplomatico-commerciali (non ancora sufficientemente studiati) si associò ad un'altra personalità bresciana di spicco: G. A. Archetti. Si tratta di importazioni ed esportazioni autorizzate segretamente sia dell’Imperatore Carlo VI (diploma 1728) sia dal Doge Ruzini (diploma 1734). La loro attività è quindi, come diranno successivi diplomi, “svolta con pericolo di vita” (perché avrebbero potuto essere in qualsiasi momento sconfessati) e con “merito ben particolare verso il Senato”. Due esempi di queste attività: nel 1733 e 1734 rifornirono di grano Brescia e la relativa provincia attraverso il Ducato di Mantova; e nel 1735 sappiamo che l'Ambasciatore di S. M. Cesarea chiese a Venezia il permesso di rilevare 6000 fucili dalle fabbriche Chinelli ed Acquisti di Gardone V.T. “accordato con Ducale 1 settembre purché la cosa avvenga in via privata”. È facilmente ipotizzabile che da Gardone a Lumezzane il Lechi, e attraverso la Valsabbia a Campione l’Archetti, indi, per via lago, a Riva. Archetti e Pietro Lechi continuarono nel frattempo con i loro appalti e assistenza ai commercianti bresciani (1739).

Furono le due personalità di maggiore spicco in città: e un indizio è che alla ricostruzione del Teatro Grande (1739) entrambi non solo acquistarono tre palchi ciascuno, ma ebbero anche libero accesso al Ridotto. Intanto Pietro Lechi, oltre ad aver restaurato con gusto la sua casa di Brescia e fatte alcune opere alla Nassina (1736-1738), fu tanto soddisfatto del suo architetto Marco Antonio Turbino, luganese, da commissionargli la “gran fabbrica” della villa di Montirone.

La costruzione della villa si svolse in due riprese: 1739-1746 e 1754-1760, è tuttora di proprietà dei Lechi, ed è da sempre la loro residenza prediletta. Vi lavorarono artisti provenienti da Venezia, dal comasco, dal Ducato di Milano, e naturalmente alcuni bresciani. A Pietro Lechi essa (come si vede dalla sottile scelta degli artisti) servì per quasi vent’anni anche come punto d’incontro delle sue relazioni politiche veneto-austriache; oltre, naturalmente, anche per la villeggiatura e la conduzione agraria.

Nel 1743 Archetti venne creato, dall’Imperatrice Maria Teresa, marchese di Formigara; e nel 1745 Pietro Lechi venne investito dal Doge di Venezia dei feudi comitali maschili di Bagnolo veronese e della terra di Meduna in Friuli: e la quasi contemporaneità non è certo casuale. Per dare un’idea del potere raggiunto a Venezia da Pietro Lechi, egli riuscì a fare liberare dal bando il suo parente Gian Maria Polini nonché, nel 1760, il proprio figlio Galliano.

All’età di settant’anni si dedicò alla costruzione della parrocchiale di Montirone (1762) profondendo larghissimi mezzi, ma ormai la sua fortissima fibra era usurata.

Questo FØž libero Muratore che sinora è forse sembrato dedito soprattutto alla ricerca del potere, ci lascia un’altra sorpresa. Fu appassionato collezionista di quadri e buon musicista, nell’inventario erano presenti tutti strumenti ad arco, ai quali si aggiungeranno quelli del figlio Faustino e quanto ai quadri la sua galleria non è stata molto abbondante (non paragonabile a quella di suo figlio Faustino) ma assai scelta: furono un centinaio, tra i quali spiccano cinque Moretto e, tra Brescia, Montirone e Aspes, ci sono ben 21 quadri del Pitocchetto: è il Ceruti, ignorato e anche forse disprezzato dai buoni bresciani. Attorno al 1730 Giacomo Ceruti fu quindi ospite qualche mese d’estate in casa Lechi ed è ben singolare ed intelligente questo mecenatismo ed un omaggio vero al gusto di Pietro Lechi.

Passò all’OrØž Eterno il 7 maggio 1764 all’età di 73 anni.

 

 

LECHI Teodoro

(1778 – 1866)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 51).

Nacque a Brescia, 16 gennaio 1778.

È stato un Generale italiano, giacobino e consigliere militare di Carlo Alberto, Colonnello comandante la Guardia Imperiale in Russia e in Germania, Barone del Regno Italico e Cavaliere di più ordini.

Quanto è in chiaro-scuro la figura di Giuseppe, altrettanto limpida e solare è invece l’immagine del fratello Teodoro, “mon beau général”, come lo chiamava familiarmente Napoleone. E' molto probabile che sia proprio ispirata a Teodoro Lechi la nobile figura di ufficiale descritta da Stendhal nella Certosa di Parma come conte di Pietranera (Paolo Colussi, I Fratelli Lechi, in storiadimilano.it/Personaggi, anche per altre annotazioni successive).

Quattordicesimo figlio del FØž Faustino Lechi (vedi) e quinto dei sette maschi sopravvissuti dopo Giuseppe, Giacomo, Angelo e Bernardino.

Ancora molto giovane al momento della rivoluzione bresciana, seguì i fratelli maggiori nelle vicende che porteranno Giuseppe fino al grado di generale dopo la battaglia di Marengo. Ebbe modo di farsi notare per il suo coraggio durante la presa di Trento: fu il primo ad assalire la città.

Teodoro si arruolò nella Legione Bresciana il 18 marzo del 1797, allo scoppio della rivoluzione cittadina. Il suo carattere più schietto e leale, meno contorto di quello di Giuseppe, lo tenne lontano dalle congiure per l’unità d’Italia tramate forse dal fratello con i napoletani, si schierò invece subito e decisamente con il Melzi e con Napoleone ed entrò nella nuova Guardia Presidenziale della Repubblica Italiana che diventerà poco dopo la famosa Guardia Reale. Nel 1803 fu promosso al grado di Colonnello.

Teodoro, con i migliori quadri della Guardia, trascorse quasi due anni a Parigi (dal 1803 al 1805) per addestrarsi alle nuove tecniche militari francesi. Quando tornò a Milano con Eugenio di Beauharnais, nuovo Viceré del Regno d’Italia, divenne comandante dei Granatieri della Guardia Reale del nuovo Viceré.

Il 13 giugno 1805 ebbe l’onore di ospitare Napoleone, dopo la sua incoronazione, nella villa di famiglia a Montirone, venne nominato Scudiero del Re d’Italia e ricevette in consegna da Napoleone stesso le aquile e gli stendardi della Guardia.

Sempre nel 1805 Teodoro seguì il suo idolo sui campi di e in tutte le avventure napoleoniche di questi anni trionfali. Dal 1807 al 1809, combatté con il Principe Eugenio di battaglia in battaglia, di vittoria in vittoria, nel Veneto, in Dalmazia, in Albania, in Ungheria.

Nel 1809 fu promosso Generale di brigata e dopo la battaglia di Wagram (6 luglio 1809), alla vigilia della quale aveva formato con la sua Guardia il quadrato attorno all’imperatore, venne nominato Barone dell’Impero con diritto di trasmissibilità del titolo, privilegio quest’ultimo conferito a pochissimi italiani.

Dal 1810 alla fine del 1811, mentre il fratello Giuseppe era in carcere o comunque in disgrazia, Teodoro si gustò a Milano le grandi feste e i balli di questo raro periodo di pace. Fu forse in questi anni che acquistò la casa in Porta Orientale, dove ammasserà i più di 800 quadri raccolti durante le sue campagne militari, qualcuno persino in Albania.

Bello, colto, ricco e famoso, il 10 febbraio 1812 il FØž Teodoro partì per la campagna di Russia dove ogni avversità si scatenò contro l’esercito francese, partecipò a tutti gli scontri, compresi quelli della ritirata: anche qui, però, in quei terribili giorni, la sua buona stella lo sostenne e riuscì a salvarsi con molti della sua Guardia e a meritare l’elogio dell’imperatore per le sue grandi capacità di comandante e di combattente.

L’anno successivo, Eugenio si affidò interamente a lui per ricostruire un esercito a Milano dopo la catastrofe, e Teodoro riuscì a partire per la nuova guerra contro l’Austria con 10.000 uomini. Ma ormai la sorte di Napoleone era segnata.

Teodoro seguì Eugenio nell’avanzata e nella ritirata in Italia dopo la sconfitta di Lipsia. Lentamente ma inesorabilmente dovettero ripiegare dal Friuli, poi dal Veneto attestandosi nel febbraio 1814 a Salò, ultima linea di difesa per non perdere Milano. Gli Austriaci incalzarono a est, gli austro-napoletani di Murat e del fratello Giuseppe Lechi erano attestati oltre il Po in attesa degli eventi. Sembrava che fosse ormai arrivato il momento in cui i due fratelli si sarebbero scontrati in un’ultima battaglia decisiva tra due Italie o tra due modi di concepire l’Italia, ma Eugenio firmò l’armistizio con l’Austria, sperando di conquistarsi così il trono. Teodoro lo supplicò di andare a Milano prima che i suoi nemici, soprattutto il generale Pino, facessero svanire le sue speranze. La Guardia Reale, per bocca di Teodoro, proclamò la sua fedeltà ad Eugenio il giorno 19 aprile, ma il giorno dopo ci sarà la rivolta di Milano e la fine del sogno bonapartista in Italia.

Il 27 aprile del 1814, Teodoro fu protagonista di un rito alquanto singolare: per fedeltà alla propria Guardia e per non consegnare all’Austria le bandiere e gli stendardi delle Guardia Reale li fece bruciare dai suoi ufficiali e poi con loro ne mangiò le ceneri. Salvò le aquile (una la conserverà gelosamente per oltre trent’anni e che donerà a Carlo Alberto nel 1848 e una è conservata al Museo del Risorgimento di Milano).

Tornato “borghese” dopo aver rifiutato il giuramento all’Austria, Teodoro visse tranquillo, circondato dai suoi quadri, a Milano in Porta Orientale. Ma fu solo per pochi mesi. A settembre, mentre era nel suo giardino con un vaso di fiori in mano, entrò un suo ex collega ed ex fratello massone che gli disse: “Teodoro, è il momento di deporre i fiori e impugnare la spada!

Il generale si risvegliò in lui ed eccolo coinvolto nella congiura massonica degli ex generali del 1814. Le congiure però non facevano per lui: fu arrestato in dicembre e rinchiuso nel Castello Sforzesco, al secondo piano nel cortile della Rocchetta, poi venne tradotto a Mantova. Fu condannato a morte, la condanna venne poi commutata in cinque anni di carcere, anche perché non ammise mai la sua partecipazione né denunciò gli altri congiurati.

Rimesso in libertà nel 1819, si infierì ancora su di lui, condannandolo a pagare al fisco una cifra enorme come rimborso per le gratifiche ottenute da Napoleone. Cercò di vendere a Londra i suoi quadri, ma gli si negò il permesso di esportazione. Dovette vendere allora la casa di Porta Orientale, che passò al conte Batthyányi, membro di un’illustre famiglia d’Ungheria.

Tornò a Brescia nella casa di famiglia dove vivevano alcuni dei suoi fratelli.

Nel 1829 sposò Clara Martinengo-Cesaresco dalla quale ebbe tre figli, uno solo dei quali, Faustino II, raggiunse la maggiore età.

Nel 1832 riuscì finalmente a contrattare l’esportazione dei quadri. In cambio cedette a Brera il Martirio di Santa Caterina di Gaudenzio Ferrari e la Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Girolamo di Callisto Piazza. Con i soldi ricavati acquistò dal fratello Luigi l’isola Lechi sul lago di Garda.

Nel 1843, per fornire una buona scuola a Faustino, tornò a Milano e prese in affitto un appartamento nella casa Bellotti in via Brera. Era destino però che Milano non consentisse a Teodoro di vivere finalmente in pace.

Il 18 marzo 1848, all’inizio delle Cinque Giornate, bussarono di nuovo alla sua porta perché, ormai settantaduenne, tornasse ad impugnare la spada. Assunse il comando della Guardia Civica e successivamente quello dei Corpi Volontari Lombardi. Uomo d’esperienza, cercò invano nei mesi seguenti di consigliare Carlo Alberto (Re tentenna)a correggere la disastrosa campagna militare che stava conducendo, suggerì al ministro della guerra Antonio Franzini di utilizzare le linee ferroviarie per trasportare le truppe ed assaltare Verona; la raccomandazione, che probabilmente avrebbe cambiato le sorti della prima guerra di indipendenza, non venne accolta.

Al termine della guerra si ritirò in Piemonte, subendo da parte dell’Austria il sequestro dei beni e una multa di 40.000 lire. A Torino venne nominato Generale d’Armata da Carlo Alberto e per riconoscenza, il veterano ex giacobino e massone, consegnò al Re di Sardegna l’unica aquila sottratta al rituale del 1814.

Nel 1854 scrisse per il figlio la sua autobiografia che verrà pubblicata alla fine dell'Ottocento.

Nel 1859 poté finalmente tornare a Milano in un appartamento di palazzo Taverna di via Bigli.

Per la sua biografia e quella dei fratelli Giuseppe e Luigi:  A. Lumbroso Il generale d’Armata conte Teodoro Lechi e la sua famiglia nella Rivista storica del Risorgimento del Beniamino Manzone III, 1898, 352, poi nel volume Attraverso la rivoluzione e il primo impero, Torino, Bocca, 1907, pp. 273-316 ed inoltre il Rapporto Torresani del 1831 in Luzio pag. 339.

Passò all’OrØž Eterno a Milano il 2 maggio 1866 all’età di 88 anni.

 

[1] Il Grande Oriente di Napoli era un’organizzazione Massonica fondata nel 1804 nel Regno di Napoli con il nome di “Grande Oriente della Divisione dell’Armata d’Italia esistente nel regno di Napoli”, sotto la Gran Maestranza del generale napoleonico e patriota italiano Giuseppe Lechi. Giuseppe Bonaparte ne fu Gran maestro fino al 1841. Nel 1864 questo Grande Oriente si fuse con le altre Comunioni italiane dando vita al Grande Oriente d’Italia.

LEGNAZZI Alessandro

(1832 - 1904)

Fratello fondatore della Regia Loggia Arnaldo all’OrØž di Brescia di RSAA.

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 120 - 121).

Nacque a Brescia, 5 ottobre 1832.

Giornalista e politico italiano, deputato alla Camera dal 1865 al 1876.

Figlio di Pietro Francesco e Giulia Dossi. Il padre, priore della Dottrina Cristiana, lo volle educato a intensa vita religiosa, ma essendo chiusi, per vicende politiche, il ginnasio e il liceo di Brescia, studiò filosofia nel convento di S. Gaetano, di cui conservò gratissimo il ricordo.

Nel 1849 prese parte, assieme al padre, alle Dieci Giornate di Brescia.

Si iscrisse all’Università di Padova, dove si laureò in legge, e contemporaneamente si laureò anche presso l’Università di Innsbruk in “utroque jure”.

Pur prendendo l’abilitazione all’avvocatura, dopo un anno di attività, preferì dedicarsi al giornalismo, scrivendo per la “Gazzetta Provinciale” e fu tra i promotori e collaboratori della “Sentinella bresciana” (trattando argomenti storici amministrativi ed elettorali), principale quotidiano di Brescia e organo di stampa del Circolo Politico, associazione costituita dai liberali moderati locali e vicina alla Destra. Il direttore della Sentinella era il FØž Luigi Botturelli (vedi). Nello stesso periodo, per qualche mese ebbe il ruolo di “Comandante interinale” della Guardia Nazionale di Brescia.

Il 25 novembre 1865 eletto deputato alla Camera per il Collegio di Leno e rimase in parlamento per ben quattro legislature.

Alla Camera aderì alla Destra e sostenne tutti i governi fino al Mighetti.

Dopo la rivoluzione parlamentare del 1876 si formò il primo governo della Sinistra con Agostino Depretis, il FØž Legnazzi andò all’opposizione per poi ritirarsi a vita privata.

A livello locale, entrò a far parte dei consigli comunali di alcuni paesi della provincia. Fu nominato sindaco di Porzano per il triennio 1863-65, poi confermato per il triennio successivo, che non completò in quanto risulta che si fosse dimesso nel 1867. Fu anche prosindaco di Leno, nel biennio 1870-71 a seguito delle dimissioni del sindaco Carlo Dossi per problemi di salute, e poi sindaco, nominato per i trienni 1884-86 e 1887-89. Si impegnò molto per l’educazione e l’istruzione popolare.

In seguito, abbandonò il bresciano e si trasferì a Firenze, dove aveva lavorato nei primi anni da deputato, acquistò Villa Il Gioiello, a Pian dei Giullari.

Il figlio Nicola che scrisse la sua biografia e che in seguito cedette la villa allo Stato italiano.

Passò all OrØž Eterno a Firenze il 15 marzo 1904 all’età di 72 anni, ammalatosi improvvisamente di polmonite.

 

​

LEGNAZZI Antonio

(1820 - ?)

Fratello fondatore della Regia Loggia Arnaldo all’OrØž di Brescia di RSAA (1863).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 114, 119, 121).

Nacque a Brescia il 21 gennaio 1820.

Avvocato, patriota.

Laureatosi in legge a Padova il 20 gennaio 1846, già durante gli anni giovanili manifestò idee patriottiche e mazziniane e poi zanardelliane.

L’8 febbraio 1848 fu fra i promotori di una sommossa. Armato di un catenaccio atterrò nei pressi dell'Università un ufficiale degli Jàger.

Nel marzo 1848 fu a capo come capitano di una delle quattro compagnie che formavano la Legione padovana che venne designata con il suo nome e con la quale combatté a Sorio dove rimase ferito due volte e riuscì a salvarsi da morte certa rotolando dal monte. Il gen. Sanfermo nel suo rapporto ufficiale al gen. Zucchi scrisse: «tra i capitani che spiegarono molta fermezza e molto valore non devo tacere certamente il nome del bravissimo Legnazzi che rimase gravemente ferito».

Rimessosi dopo tre mesi, riprese le armi, fu confermato dal governo di Venezia capitano della legione terza «Brenta e Bacchiglione», fu difensore accanito di Venezia a Sant’Anna, a Capasqua, a Sant’Angelo della Polvere, al forte Eau e rimase sulla breccia fino alla caduta della città.

Dopo la sconfitta italiana si rifugiò in Piemonte da dove seguì le vicende di Brescia.

Tornato a Brescia dopo le dieci giornate fu avvocato praticante presso lo studio di Giovanni Savoldi e sposò il 7 dicembre 1850 Caterina Bossi, figlia di un avvocato di Padova.

Presto riprese l’attività patriottica che divenne cospirazione. Fece subito parte infatti con Tito Speri, Camillo Biseo, Battaggia, Frigerio, Rogna, Baresani ecc. del comitato segreto che preparerà un’insurrezione ispirata alle direttive mazziniane e con esso si preoccupò di stampare proclami e bollettini, acquista armi ecc. Quando Tito Speri venne arrestato, avvertito da due lettere anonime, Legnazzi riuscì a fuggire; il 2 novembre 1852, si rifugiò in Svizzera a Lugano.

Il 19 dicembre fu a Torino e qui frequentò il salotto del conte FØž Teodoro Lechi e la casa del conte dalmata Demetrio Mirkovic, dove incontrò l’amante di costui, Felicita Bonvecchiato, che abbandonò il marito e cinque figli e che, fingendosi ardente patriota, fu invece spia dell’Austria.

Nel frattempo diventò uno dei perni dei progetti di rivoluzione in Lombardia, che sfocerà nella rivoluzione di Milano del 6 febbraio 1853. Redasse piani e istruzioni, dispensò somme per comperare fucili, diresse le trame degli emissari; ebbe il compito di catturare il piroscafo Radetzki in navigazione sul lago Maggiore. I crescenti dubbi sull’impresa lo portarono alla fine a ritrarsene ed informò l’abate Cameroni, che mise sull’avviso il Governo Piemontese, rendendo impossibile l’azione dei patrioti ai confini. Anche a causa del fallimento dell’insurrezione di Milano, la posizione del Legnazzi si fece difficile: gli venne perquisita la casa, i compagni di cospirazione lo guardarono con sospetto. Per questo quando l’amnistia del 19 marzo 1853 gli offri la possibilità ne approfittò.

Il 12 maggio tornò a Brescia.

Il fallimento a Cogolo il 17 settembre 1853 dal tentativo di Pier Fortunato Calvi, il suo arresto e le delazioni della Bonvecchiato portarono il FØž Legnazzi in prigione il 26 ottobre 1853. Le perquisizioni non portarono a scoperte, ma le accuse furono circostanziate. Tradotto a Mantova negli interrogatori si difese con abilità, tacendo sulle cose importanti, sfruttando tutti i possibili argomenti a sua discolpa, stravolgendo episodi in suo favore, usando parole di grande effetto dando ampie assicurazioni sulla sua buona fede, della sua buona volontà di collaborazione, accusando soltanto coloro che erano ormai al sicuro. Dopo lunghi interrogatori ed in seguito ad ulteriori accertamenti venne prosciolto.

Il 1° dicembre 1854 poté tornare a Brescia e riprendere il suo posto come diurnista presso la direzione dei Luoghi Pii.

Il 12 giugno 1859, al momento della partenza degli austriaci, Legnazzi venne incaricato di organizzare la Guardia Nazionale.

Il 16 giugno egli con il primo drappello fu già in grado di combattere a Treponti, meritando un elogio da Garibaldi.

Il 25 giugno seppe controllare la situazione bresciana in preda a disordine e a voci allarmistiche, quale comandante del generale della Guardia nazionale ne perfezionò l’organizzazione e il 2 dicembre 1859 venne nominato Maggiore Comandante il I battaglione ed esortato a rimanere in carica nonostante le discussioni dovute soprattutto a ragioni di salute.

Dopo l’armistizio di Villafranca fu fra i più instancabili promotori del Comitato di Emigrazione. Venne dissuaso a partecipare alla spedizione dei Mille alla quale desiderava partecipare. Nel giugno 1860, con Glisenti, Sedaboni, Rosa, Violini, fondò il Comitato di Soccorso per la Sicilia per sostenere l’impresa Garibaldina. Il 2 luglio egli stesso condusse a Genova 102 volontari. Fu tra i più attivi fondatori del Comitato di provvedimento per la guerra “santa"” di liberazione delle regioni ancora occupate dallo straniero.

Fu inoltre tra i promotori della Società di Tiro e collaboratore del giornale "l’Indicatore Bresciano".

Il 18 maggio 1860 la città di Brescia gli decretò la medaglia d'oro per la sua attività promotrice1: il 12 giugno 1861 venne eletto Cavaliere della Corona d’Italia e il 27 giugno venne eletto Consigliere Comunale.

Il 3 settembre 1859 fu nominato segretario e Commesso legale dei Luoghi Pii. Poi la salute, sempre compromessa dalle ferite del combattimento di Sorio, lo obbligò ad anni di desolazione di tristezza che lo consumarono fino alla fine, assistito dalla cognata Antonietta Bassi sposata nel 1866.

 

 

LEONE LEVI Giorgio

(?)

Fratello della Loggia “Fratello Busan” n. 57 del 1945 del GØžOØžIØž

Fu Maestro Venerabile della Fratello Busan nel 1951 (da una lettera del FØž Soliani Elio, MØž VØž della RØž LØž Edmondo De Amicis all’OrØž di Novara al FØž Filippo Grasso, lettera in custodia al FØž Daniele Gasparetti).

Nulla sappiamo di questo FrØž, mancando notizie certe su di lui. Il nome del FrØž Leone Levi Giorgio non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

​

​

LODA Francesco

(1936 – 1997)

Affiliato alla Loggia Zanardelli n. 715 all’OrØž di Brescia, Valle del Mella del GOI.

(Silvano Danesi, www.silvanodanesi.info, Aprile 23, 2008, Brevi note storiche sulla Massoneria bresciana e loggialiberopensiero.wordpress.com, ad vocem).

Nacque a Brescia il 24 gennaio 1936.

Politico e avvocato.

Di formazione liberale, è poi entrato nelle file del Partito comunista italiano, nelle cui liste è stato eletto al Parlamento, nella VIII e nella IX legislatura.  

Come ebbe a dire l’onorevole Martinazzoli, nell’occasione della sua scomparsa: “Credo che se Francesco Loda si fosse interamente dedicato alla professione di avvocato, sarebbe stato un grandissimo avvocato. In questo senso la rinuncia, perché di fatto questo accadde, a questa straordinaria attitudine, a questa naturale vocazione, è un’ulteriore prova di che cosa era disposto a sacrificare alla sua passione civile: e fu un sacrificio alto”.

Il FØž Loda fu “accusato” (sic!) di essere un affiliato della massoneria: in alcuni passaggi del libro di Benedetta Tobagi sulla strage di piazza Loggia, Francesco Loda viene accusato di essere stato un affiliato alla P2 e alla massoneria (sic!). «Non si può dire “fratello in sonno della Loggia P2” ammettendo di avere la prova del contrario - ha affermato l’ex sindaco Cesare Trebeschi - Mi spiace vederlo infangare senza prove e senza scopi, a maggior ragione guardando scivolare su un granchio persone che stimo» (vedi Thomas Bandinelli, Loda, il politico che parlava con il cuore e l’intelletto, brescia.corriere.it,16 giugno 2014). 

Secondo quanto riportato dal FØž Silvano Danesi (vedi loggialiberopensiero.wordpress.com, 31 gennaio 2012, Loggia Zanardelli n. 715 all’OrØž del Mella, ad vocem), il FØž Loda Francesco fu uno dei sette bresciani iniziati dal Gran Maestro Gamberini il 14 marzo 1970 alla loggia romana Propaganda 2 (prima che questa fosse deviata da Licio Gelli e quando era ancora alle dirette dipendenze del Gran Maestro), che fondarono la loggia Zanardelli 715 (con alcuni altri Fratelli massoni bresciani operanti a Verona e con quelli provenienti dalla Loggia bresciana Ettore Busan, i quali per qualche tempo avevano formato un triangolo). La Loggia Zanardelli n. 715 fu costituita ufficialmente nel 1971 dopo che i sette bresciani, provenienti dalla Loggia Propaganda ebbero ricevuto l’exeat per la loro provincia d’origine il 20 maggio 1970. I bresciani che arrivarono da Roma erano Aldo Sanzogni, Pierluigi Bossoni, Gian Luigi Berardi, l’ex comandante partigiano Antonio Parisi, Domenico Lusetti, Roberto Salvi e Francesco Loda (che risulta iniziato alla Propaganda Due il 4 luglio 1970 secondo gli Atti della Commissione P2 – Allegati alla relazione – Serie II – Documentazione raccolta dalla Commissione – Vol. VI – Tomo XVIII). Ebbero come loro leader il professor Edoardo Ziletti, che ben presto diventerà l’animatore e il Maestro Venerabile della Loggia, che risulta essere attiva ancora nel 1975 e che chiuse poco dopo la morte del professor Ziletti, nella cui casa a Botticino aveva sede il Tempio. La sua demolizione ufficiale è datata 2 dicembre 1977. (Vedi documentazione relativa a Pierluigi Bossoni – Atti commissione P2 – Allegati alla relazione – Serie II – Documenti raccolti dalla Commissione – Vol VI – Tomo XV –).

؞؞؞

Dagli Atti della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, nella 21ª seduta del 4 GIUGNO 1997, audizione del dott. Giovanni Arcai.

L’on. Fragalà deputato di Alleanza Nazionale chiese: «[…] Dottor Arcai, è vero che a lei è stato richiesto da un certo Adelino Ruggeri [vedi], un esponente massone di Brescia, di aderire alla Loggia massonica Zanardelli di Brescia di cui faceva parte l’avvocato Loda, poi diventato parlamentare del Partito comunista italiano?»

Arcai: «[…]venne da me un signore che si qualificò come maestro venerabile della Loggia massonica Zanardelli di Brescia e mi invitò ad aderire ad una Loggia massonica che avrei deciso in seguito. Molto tempo dopo capii il riferimento alla P2 […]Io ho tuttora le carte che Adelino Ruggeri mi aveva dato per invogliarmi ad iscrivermi alla Loggia massonica. Ho visto che nella stessa Loggia c’erano diversi avvocati bresciani, ottime persone, tra le quali l’avvocato Loda che era “in sonno”. Nel gergo massonico “essere in sonno” non significa non essere più massone: massone si è e massone si muore. A me è risultato anche che l’avvocato Loda era iscritto anche alla P2».

L’on Corsini (Sin.Dem.-l’Ulivo): «Su questo problema è uscito un libro di Silvano Danesi che ha fatto chiarezza: non è la P2 di Licio Gelli. Non si possono fare illazioni gratuite. La figura dell’onorevole Francesco Loda va rispettata».

Arcai. «È un’altra P2?»

Presidente. «Non ci allontaniamo dall’argomento».

Fragalà. «L’avvocato Loda è stato difensore... »

Arcai. ... «l’avvocato Loda è morto pochi giorni fa... »

Fragalà. ... «difensore di parte civile, insieme all’onorevole Martinazzoli nel processo della strage di Brescia. […]».

؞؞؞

Il 14.6.2014 vi fu un affollato convegno intitolato “Loda, l’uomo sbagliato che scelse il Pci «per creare una sinistra di governo»” e, prendendo a prestito le parole di Cesare Trebeschi, non è stata l’occasione per «ricordare un uomo con lo stanco rito di un cordoglio banalmente ripetitivo», ma ha rappresentato, come sottolineato dall'ex sindaco, l'opportunità di «guardare la sua figura attraverso le tante sfaccettature che presenta un cristallo». Francesco Loda, «uomo sbagliato secondo le categorie attuali», come lo ha definito l’assessore Marco Fenaroli, «è stato il protagonista di un’epoca passata che ha segnato in profondità i destini della città. Con la sua morte si chiuse un periodo, indicato dal figlio Pietro come «l’ultimo in cui la politica seppe essere interpretata come un servizio, una scelta che trasforma un’intera vita». Chi era Loda? Primo Levi affermava che «è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta». Ciò nonostante, il convegno ha offerto l’immagine nitida di un uomo complesso, un comunista che divenne tale a dispetto dei propri interessi di classe e in barba al suo Dna ideologico di liberale democratico [e massonico ndr, ma ciò si evita di dirlo]. Scelse il PCI, in cui poteva trovare una casa che abitò poi da inquilino di minoranza, lui riformista a tutto tondo. «Loda, oltre a incarnare una specchiata moralità pubblica e privata, lavorò per costruire una sinistra riformista di governo, questa è l’eredità più importante che ha lasciato a tutti noi, anche a chi quella storia non l’ha combattuta o non l’ha condivisa», ha riconosciuto Claudio Bragaglio, indicando nelle giunte aperte, cui venne data vita dopo i cambiamenti indotti dalla strage del ‘74, l’avvio di un percorso tra i più significativi per Brescia e per il Paese, laboratorio nel quale prese forma il progetto dell’Ulivo. «Brescia provinciale? Tutt’altro!», è stata l’orgogliosa rivendicazione di Giampiero Borghini, «abbiamo giocato un grande ruolo nel Risorgimento, qui è nato e cresciuto Zanardelli [FØž Massone tra i più attivi e volutamente ignorata negli interventi pubblici la sua militanza Libero Mutratoria], un liberale gloria della politica nazionale, da noi si è materializzata la prima giunta aperta del Paese, la federazione provinciale del PCI ha anticipato la linea politica del partito nazionale».

Francesco Loda è stata una rappresentazione emblematica del processo di rinnovamento che il PCI stava vivendo. Francesco era di famiglia borghese, il padre fu medico pedriatra, cresciuto alla cultura laica di ispirazione crociana e liberale, dopo gli studi universitari condotti avendo come maestro Guido Fassò (lo studioso della democrazia presso i greci), si dedica alla professione forense, senza per questo trascurare i propri interessi culturali, particolarmente la filosofia politica e del diritto, frequentati attraverso la lettura dei classici (suoi alcuni saggi su Pufendorf e Spinoza) fino al pensiero dei contemporanei, da Kelsen a Schmitt a Popper.

“Legato in profondo sodalizio” agli ambienti dell’intellettualità laica cittadina, da Renzo Balbo al FØž Gianluigi Berardi (vedi) a Mario Cassa, con il quale condivide la traiettoria dal dal liberalismo al marxismo, attraverso l’adesione al gruppo “Unità delle sinistre”, viene maturado una sensibilità e un orientamento che lo avvicinano al movimento operaio, sino all’iscrizione al PCI nel 1971, dopo un periodo di fiancheggiamento al partito come indipendente. Un presenza contrassegnata dal rigore di un'intelligenza sottile e dalle capacità di lucide tessiture: capogruppo in Loggia dal 1975 al 1980 e parlamentare dal 1979 al 1987, è protagonista di rilievo nel dibattito sugli snodi fondamentali della politica comunista, tanto locale che nazionale, una presenza a volte controversa che suscita nel partito e nei suoi dintorni larghe condivisioni, e pure qualche contrarietà, soprattutto in rapporto all’interpretazione prima del “compromesso storico”, poi della linea dell’”alternativa democratica” e di quel che ne consegue, quanto al giudizio sul PSI di Bettino Craxi, sulla qualità del riformismo, una volta archiviato Berlinguer, di cui è stato convinto sostenitore.

Uno degli artefici fu proprio Loda, di cui Bruno Barzellotti ha riconosciuto la capacità di convinzione, una prerogativa maturata «mai parlando alla pancia dei nostri compagni, ma al loro cuore e soprattutto al loro intelletto, da questo punto di vista fu un grande formatore». Del periodo romano di Loda ha parlato Augusto Barbera: «A Montecitorio fu capogruppo della Commissione Affari Costituzionali, la disciplina la manteneva in maniera ferma, con tratto gentile e schivo che puntava più a convincere che a vincere». L’abilità forense di Loda è stata rammentata da Giorgio Galli, che fu praticante nello studio di via Moretto 42: «Una profonda preparazione giuridica, una vocazione dettata dall’essere un intellettuale raffinatissimo».

Passò all’OrØž Eterno il 17 maggio 1997 all’età di 61 anni.

 

 

LUINI Jacopo (o Iacopo)

(?)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 51).

Consigliere di Stato, 1° Presidente della Corte civile e criminale del Dipartimento dell’Olona, poi Direttore Generale di Polizia (op. cit. P. Guerrini).

Null’altro sappiamo di questo FrØž mancando notizie certe su di lui, il suo nome non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

LUOSI Giuseppe Romolo Melchiorre

(1755 – 1830)

Dignitario onorario della Reale Loggia Amalia Augusta.

Fu gran dignitario della “Gran loggia generale simbolica” in seno al Grande Oriente d'Italia con sede a Milano nel 1807 e 1808.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 51).

Nacque a Mirandola (Modena) il 5 settembre 1755.

È stato un politico e giurista italiano. â€‹Avvocato di grido, Ministro di Giustizia nella prima Cisalpina (1797-1798), membro del Direttorio della stessa Repubblica (1798-1799), della Consulta Legislativa (1800), dei Comizi dei Dotti (1802), di nuovo Ministro di Giusizia (1805-1814), Senatore nel 1809 (Op. cit. P. Guerrini e T. casini, Il Collegio elettorale dei Dotti a Bologna nell’Archiginnasio, 1915, p. 45).

Risale al 1791 la Riflessione sopra lo stato attuale della provincia mirandolese, documento storico importante poiché contiene una dettagliata descrizione geofisica ed economico-sociale della bassa modenese della fine del XVIII secolo, caratterizzata da una realtà agricola depressa dovuta all'inefficienza del latifondismo feudale. Secondo Luosi, era necessaria una radicale riforma agraria, con l'abolizione dei dazi per favorire il libero mercato, e la parcellizzazione dei terreni, da affidare a nuove famiglie di coloni agricoli insieme a sgravi fiscali ed incentivi economici. Inoltre, propose di bonificare le paludi delle valli mirandolesi per ottenere nuovi terreni e razionalizzare il governo delle acque, da utilizzare per l’irrigazione secondo le moderne tecniche agricole.

Dopo la fuga da Modena a Venezia del duca Ercole III d’Este a seguito delle invasioni napoleoniche, Luosi e altri intellettuali illuminati si resero immediatamente disponibili alla nuova realtà politico-culturale influenzata dalle innovative idee repubblicane francesi.

Nel giugno 1796 Luosi conobbe il generale francese Pierre Augereau, giunto alla Mirandola dopo l'assedio di Mantova, che lo presentò a Napoleone Bonaparte e da questi subito apprezzato.

L’8 ottobre 1796 Luosi si trasferì a Modena, dove venne nominato componente del governo provvisorio che abolì i titoli nobiliari e le giurisdizioni feudali.

Luosi poté quindi ricoprire una serie di cariche nelle Repubbliche sorelle sorte a seguita della prima Campagna d'Italia del Bonaparte: membro del governo di Modena, poi componente della giunta di difesa della Repubblica Cispadana, dal 30 giugno 1797 ministro della Giustizia della Repubblica Cisalpina, nel cui direttorio entra il 31 agosto 1798.

Durante le alterne vicende dovute alla reazione austro-russa, Luosi si rifugiò a Chambéry.

Nel giugno 1800, dopo la battaglia di Marengo che portò alla ricacciata degli austriaci dall’Italia, Luosi fu nominato membro della Consulta legislativa della seconda Repubblica Cisalpina.

Infine fu ministro della Giustizia del Regno italico dal 9 giugno 1805 al 1814, anno della caduta del Regno stesso con la sconfitta di Napoleone. In questi anni fece approvare il nuovo Regolamento organico per il riordino delle competenze delle varie magistrature e curò la traduzione italiana del Codice napoleonico, che fu alla base delle riforma del diritto italiano.

In seguito alla Restaurazione, Luosi ritornò a vita privata.

Se i contemporanei non misero in dubbio le sue doti di giurista, le debolezze dell’uomo furono oggetto di critiche e di scherni da parte dei Milanesi. Amante del lusso e della mondanità, visse al di sopra dei suoi mezzi, costringendo lo stesso Napoleone a intervenire più di una volta a ripianare i suoi debiti. La sua figura pubblica e di studioso ha dato adito a giudizi contrastanti nella storiografia. M. Roberti ha parlato di “evidente servilismo” verso Napoleone e C. Zaghi di “passività” e “remissività”; altri hanno respinto queste accuse, sottolineando piuttosto gli sforzi incessanti del Luosi nel promuovere l’opera di codificazione e nel salvaguardare in diverse occasioni la specificità della tradizione giuridica italiana. Inoltre, gli è stato da più parti riconosciuto il merito di avere chiamato uomini di indubbie capacità a far parte dell'apparato giudiziario e a collaborare ai progetti legislativi.

D’altro canto, se è innegabile che di fronte alla volontà dell’imperatore che imponeva la promulgazione dei codici francesi il Luosi mutò ogni volta repentinamente atteggiamento, affrettandosi ad approntarne le traduzioni, occorre tenere presente la realtà dei suoi rapporti con Napoleone. Come è stato messo in evidenza, da questo punto di vista il Luosi appare una “figura assolutamente paradigmatica” di un certo ambiente giuridico-culturale formato da alti funzionari che, in Italia come in Francia, dovevano la loro ascesa politica e la loro fortuna interamente al favore imperiale (Cavanna, p. 725).

Passò all’Or Eterno a Milano1º ottobre 1830 all’età di 45 anni.

 

 

LUSETTI Domenico

(1908 – 1971)

Affiliato alla Loggia Zanardelli n. 715 all’OrØž di Brescia, Valle del Mella del GOI. (1971).

(Vedi Massoni bresciani, loggialiberopensiero.wordpress.com, ad vocem e Silvano Danesi, Brevi note storiche sulla Massoneria bresciana).

Nacque a Pontevico, 6 maggio 1908.

Artista e scultore. Reduce dai campi di sterminio nazisti.

Terminate le scuole elementari, Domenico Lusetti lavorò nelle cave di Mazzano e di Botticino. Studiò poi a Brera e fu, sempre a Milano, allievo degli scultori Timo Bortolotti e Leone Lodi. Si dedicò dapprima all'approfondimento dei classici, staccandosene poi per indirizzarsi verso forme più libere e moderne.

La sua carriera artistica si aprì a Milano, nel 1936, con una mostra che ebbe un discreto successo, tanto che nel 1937 la pinacoteca Tosio Martinengo acquistò una delle sue opere (“La nipotina”).

Nello stesso anno apre studio in via Bassiche e nel 1947 si trasferisce in uno studio in via Ferramola che, alla sua morte, viene trasformato in mostra permanente delle sue opere.

Nel 1938 è presente alla IX mostra sindacale di Milano, a quella di Villa Reale di Milano e sempre nel 1938 una sua opera, dal titolo “Giovannino”, viene acquistata dalla Galleria d’arte moderna di Milano. A Sanremo nel 1938 espone un’opera in legno “Il Velocista” che sarà esposta poi a Roma e a Berlino (nel 1939), a Madrid (1940) e infine al Dopolavoro provinciale di Brescia nel 1941. In tale anno ha già all’attivo molte sculture.

L'intensa attività viene interrotta dalla chiamata alle armi e dalla lunga prigionia in lager tedeschi dal settembre 1943 al maggio 1945, esperienza di cui ha lasciato un vibrante diario.

A questo periodo dedicherà nel 1967 l’opera letteraria “Lager XIB – Diario di prigionia” e numerose grafiche che saranno esposte in mostra.

Il diario di Domenico Lusetti è un testimone, pagina dopo pagina, della sua grande forza d’animo, della capacità di rimanere fedele all’arte, al bello, al buono per restare padrone della propria identità, rafforzandola, tanto che, quanto più forte fu la deriva umana indotta dalla tortura e dall’abominio, tanto più lui fu capace di estraniarsi e guardare se stesso e gli altri con compassione, la stessa che seppe mantenere anche per i tedeschi deportati e per i civili sotto i bombardamenti.

Numerose volte in quelle tristi pagine scrisse “Io sono uno scultore!” fino a quando poté scrivere “Tutto si assopisce. Apro un libro; in mezzo a quelle pagine è custodito il mio numero di matricola: 153469. Lo tolgo e lo appendo a un chiodo sulla parete di legno mormorando: -Ti lascio qui, perché è in questa terra che mi sei stato assegnato, come nome di vergogna. Ma non sei sopravvissuto all’altro, che è un bel nome italiano. Ritorno a rivedere mia madre.

Al ritorno, dopo un periodo di raccoglimento e di ripensamento, la sua attività di artista si sviluppò notevolmente e le sue opere sono oggi presenti in numerose gallerie d’arte permanenti di tutto il mondo.

Nel suo nuovo studio nel 1947 scrive il motto: “Chi dell'altrui si veste / presto si spoglia”, che lo guida nella ricerca della propria identità.

Numerosi i monumenti sparsi per la provincia e numerosi anche i suoi ritratti.
Domenico Lusetti fu anche valente medaglista.

Secondo quanto riportato dal FØž Silvano Danesi (vedi loggialiberopensiero.wordpress.com, 31 gennaio 2012, Loggia Zanardelli n. 715 all’OrØž del Mella, ad vocem), il FØž Lusetti Domenico fu uno dei sette bresciani iniziati dal Gran Maestro Gamberini il 14 marzo 1970 alla loggia romana Propaganda 2 (prima che questa fosse deviata da Licio Gelli e quando era ancora alle dirette dipendenze del Gran Maestro), che fondarono la loggia Zanardelli 715 (con alcuni altri Fratelli massoni bresciani operanti a Verona e con quelli provenienti dalla Loggia bresciana Ettore Busan, i quali per qualche tempo avevano formato un triangolo).

La Loggia Zanardelli n. 715 fu costituita ufficialmente nel 1971 dopo che i sette bresciani, provenienti dalla Loggia Propaganda ebbero ricevuto l’exeat per la loro provincia d’origine il 20 maggio 1970.

I bresciani che arrivarono da Roma erano Edoardo Ziletti, Aldo Sanzogni, Pierluigi Bossoni, G.Luigi Berardi, Antonio Parisi, Domenico Lusetti e Roberto Salvi, che risultano iniziati alla Propaganda Due il 14 marzo 1970 e trasferiti a Brescia il 20 maggio 1970.  (Commissione P2 – Allegati alla relazione – Serie II – Documentazione raccolta dalla Commissione – Vol. II – Tomo I). 

Ebbero come loro leader il professor Edoardo Ziletti, che ben presto diventerà l’animatore e il Maestro Venerabile della Loggia, che risulta essere attiva ancora nel 1975 e che chiuse poco dopo la morte del professor Ziletti, nella cui casa a Botticino aveva sede il Tempio. La sua demolizione ufficiale è datata 2 dicembre 1977. (Vedi documentazione relativa a Pierluigi Bossoni – Atti commissione P2 – Allegati alla relazione – Serie II – Documenti raccolti dalla Commissione – Vol VI – Tomo XV ).

Passò all’OrØž Eterno a Brescia, 3 maggio 1971 all’età di 62 anni.

bottom of page