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Liberi Muratori

bresciani - T - U

TAGLIORETTI Luigi

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nulla sappiamo di questo Fr؞, mancando notizie certe su di lui, il nome di Luigi Taglioretti non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

TAXIS (o “de TAXIS” BORDOGNA VALNIGRA) Ferdinando Vincenzo, sacerdote

(1756 - 1824)     

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61 e “Alle radici del Museo di storia naturale di Trento - Ferdinando Taxis e la sua collezione mineralogica”, p. 245, 247, 249, 251).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Nato a Trento il 22 gennaio 1756.

Sacerdote, collezionista mineralogico italiano.

Esponente della famiglia Taxis Bordogna Valnigra, fu reggente capitolare del principato vescovile di Trento, deputato alla Dieta di Innsbruck e Ispettore aggiunto alle miniere del Regno d'Italia napoleonico.

Dei conti Thunn di Trento, legati al principato di Thurn und Taxis.

Ferdinando Taxis era il più giovane degli undici figli del barone Giovanni Francesco Taxis, che dirigeva le Poste di Trento (la famiglia Tasso [Taxis]-Bordogna-Valnigra è un ramo della famiglia Tasso, che ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione del servizio postale in Europa) e della baronessa Anna Barbara Crosina. Mentre il maggiore degli undici figli erediterà le mansioni paterne di responsabile della Posta di Trento, il più giovane Ferdinando fu avviato agli studi a prioritario indirizzo teologico. Frequentò, a partire dall’età di dieci anni, il Collegium Laxenburgensis di Vienna e successivamente il Collegium Germanicum et Hungaricum di Roma.

Ordinato sacerdote diviene all’età di diciott’anni canonico della cattedrale di Trento, secondo quanto ratificato il 14 gennaio 1774 dal principe vescovo Cristoforo Sizzo de’ Noris.

Ferdinando Vincenzo, fin da ragazzo, coltivò anche una grande passione per le scienze naturali, e in particolar modo per la mineralogia: non appena possibile, percorreva le valli e i monti del territorio trentino per incrementare e sperimentare sul campo le sue conoscenze. Riuscì così, nel corso degli anni, a comporre una rilevante raccolta di minerali. Si trattava di una passione che, tuttavia, divise costantemente con le delicate e numerose funzioni pubbliche cui viene ripetutamente chiamato in un periodo, l’ultimo quarto del secolo XVIII, assai critico per il Principato vescovile di Trento.

Il successore di Cristoforo Sizzo de’ Noris, eletto nel 1776, sarà, suo malgrado, l’ultimo principe vescovo di Trento: l’unanimità dei voti capitolari in favore di Pietro Vigilio Thun non lasciava presagire il grave travaglio temporale e spirituale del suo governo, pressato da una parte dalle richieste di modernizzazione di ispirazione illuministica provenienti dalla casa d’Austria e dall’altra dalle resistenze opposte da nobiltà e clero cittadini, per mezzo del Magistrato consolare e del Capitolo, a ogni innovazione e soprattutto al tentativo di Thun stesso d’imporre la sua guida. In questi anni, Ferdinando Vincenzo alterna, a più riprese, gli impegni politico-ecclesiastici in sede con quelli di deputato presso la Dieta di Innsbruck; partecipa inoltre attivamente anche all’impresa familiare.

Gli anni delle guerre napoleoniche (1796-1799), con la fuga da Trento del principe vescovo Pietro Vigilio Thun e di buona parte dei canonici del Capitolo, vedono la sua progressiva ascesa ai vertici della gestione pubblica. Dopo la morte di Pietro Vigilio Thun il 17 gennaio 1800 e la mancata investitura imperiale del successore Emanuele Maria Thun, anch’egli in fuga dalla città, Ferdinando Vincenzo diventa, infatti, assieme al decano conte Sigismondo Antonio Manci e all’arcidiacono conte Giovanni Francesco Spaur, uno dei tre membri della reggenza capitolare, istituita in base al trattato di pace di Luneville del 9 febbraio 1801 e operativa dal successivo 31 marzo.

Il periodo della reggenza è pieno di contrasti, sia per l’opposizione di coloro che negano al Capitolo la potestà di governo, sia per l’antagonismo che oppone Manci, più tradizionalista, a Taxis e Spaur, ritenuti troppo accondiscendenti nei confronti del nuovo corso; Manci non risparmia neppure attacchi personali nei confronti di Taxis accusandolo di assumere comportamenti poco consoni al suo stato religioso.

In ogni caso, pur fra mille difficoltà, i tre reggenti guidano il Principato vescovile in una fase di grave disorientamento generale, politico e sociale, fino al novembre 1802, allorché Trento viene stabilmente occupata dalle truppe austriache di Ferdinand von Bissingen, ufficiale e governatore del Tirolo, ponendo fine in tal modo e ancor prima di qualsiasi atto ufficiale, alla storia plurisecolare del Principato.

Segue un periodo di relativa stabilità nel corso del quale Ferdinando Vincenzo Taxis è ancora una volta deputato presso il Governo di Innsbruck.

La pace di Presburgo del dicembre 1805 impone, però, l’ennesimo cambio di governo: subentrano i bavaresi e il territorio corrispondente grosso modo all’attuale Trentino, ai confini meridionali del Regno di Baviera, viene a costituire il cosiddetto Circolo dell’Adige. Il nuovo governo imporrà una serie di misure che non mancheranno di coinvolgere direttamente Ferdinando Vincenzo e la sua famiglia. Fra queste l’abolizione di molti dei privilegi goduti fino ad allora da nobili ed ecclesiastici.

Un elemento significativo nel profilo biografico di Ferdinando Vincenzo è la sua adesione alla massoneria. È probabile che Ferdinando Vincenzo appartenesse già alla loggia trentina “Il Nettuno”, fondata agli inizi dell’Ottocento dal medico Lorenzo Bacca e forzatamente in sonno nel periodo del governo bavarese a causa del divieto di dar vita a ogni forma di società segreta. La sua partecipazione è invece chiaramente documentata – come quella di Bacca stesso e di altri trentini – nel caso dell’importante loggia del Grande Oriente d’Italia «Amalia Augusta», fondata a Brescia nel 1806.  In seguito, nel dicembre 1810, Ferdinando Vincenzo entrerà a far parte della loggia «Alto Adige», poi chiamata «Giuseppina», sorta anche grazie all’appoggio offerto dalle autorità di governo francesi, favorevoli alla diffusione e consolidamento degli ideali massonici.

All’inizio del 1807 Ferdinando Vincenzo accetta di sostituire il nipote, impegnato nell’attività militare, alla direzione della Posta di Trento, caso davvero più unico che raro per un ecclesiastico, e, per oltre un anno, affianca tale compito alle abituali mansioni, a nuovi incarichi politici (è membro del Congresso provinciale oltre che delegato del Capitolo presso la Dieta regionale di Innsbruck) e al costante e appassionato impegno nel campo della mineralogia. Quando, nel 1810, il Trentino viene aggregato al Regno d’Italia, costituendo il Dipartimento dell’Alto Adige, Ferdinando Vincenzo si adopera con successo, a Milano, per l’adeguato riconoscimento dell’attività postale che la famiglia continuava comunque ad assicurare.

A conferma della riconosciuta esperienza in campo geologico, l’amministrazione mineraria del Regno d’Italia, con sede nella capitale, lo nomina nel 1812 Ispettore onorifico del Dipartimento dell’Alto Adige e Ispettore aggiunto alle miniere del Regno. Viene quindi istituito un consiglio facente capo al Ministero dell’Interno, incaricato della registrazione e riorganizzazione delle numerose miniere presenti sul territorio, per gran parte in mano a privati. In particolare, viene reso obbligatorio l’espletamento di perizie prima di ogni nuovo sfruttamento del sottosuolo (è lo stesso Ferdinando Vincenzo a consentire o negare le concessioni), vengono regolamentate le attività ed eseguiti i relativi controlli. Per la sua operosità Ferdinando Vincenzo riceve ripetute attestazioni di merito dalla direzione di Milano.

In tale fase, e soprattutto in quella immediatamente successiva al ritorno degli austriaci a Trento nell’ottobre del 1813 e al definitivo passaggio, il 7 aprile 1815, dell’intero territorio trentino-tirolese all’Austria, Ferdinando Vincenzo lavora alla realizzazione di un sogno che coltiva da lungo tempo: quello di veder nascere a Trento un luogo (un museo?) dedicato alla storia naturale. Non è del tutto chiaro se egli sia riuscito pienamente nel suo intento: ad oggi non si hanno, infatti, testimonianze dirette in merito alla sua azione in favore della fondazione di un istituto naturalistico. Il suo coinvolgimento nell’ideazione di un Museo di storia naturale a Trento è attestato solo da informazioni d’epoca successiva senza peraltro alcun riscontro documentario

Negli anni in cui fu Ispettore del Dipartimento dell’Alto Adige e Ispettore aggiunto alle miniere del Regno mise insieme una raccolta mineralogica, e organizzò delle raccolte private accessibili in qualche misura al pubblico, ma probabilmente non un museo vero e proprio.

La sua raccolta fu proseguito da don Antonio Scutelli, da cui il nome collezione Taxis – Scutelli, che entrò a far parte prima del patrio Museo trentino dell’Istituto sociale, poi del Museo civico annesso alla Biblioteca comunale e infine nel 1922 del Museo civico di storia naturale di Trento, oggi MUSE.

Passò all’Or؞ Eterno a Trento il 3 febbraio 1824 all’età di 68 anni.

 

TAZZOLI Pietro

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61).

Lontano da Brescia per domicilio o per ufficio.

Il F؞ Pietro Tazzoli fu giudice conciliatore e pretore, «uomo colto, di severi costumi e devoto alla causa nazionale», che sposò la nobile da Isabella Arrivabene, «gentildonna di alti spiriti ed appartenente ad una famiglia, nella quale il sapere e le virtù cittadine costituivano il retaggio di secoli»; e sorella di Ferdinando Arrivabene (vedi), F؞ nella Reale Loggia Amalia Augusta di Brescia.

Suo figlio, Enrico Tazzoli, (nato a Canneto sull’Oglio) fu sacerdote e patriota, martire di Belfiore e fin da bambino fu fortemente influenzato dagli avvenimenti di quei tempi rivoluzionari; «Ferdinando [suo zio], il noto autore del “Secolo di Dante”, l’amico di Foscolo, il legislatore e Consigliere di Appello sotto il primo regno d’Italia, privilegiato per l’elevatezza della mente, per la vastità ed estensione delle più sode e svariate cognizioni, per la generosità dell’animo e per l’ardente smania di giovare a’ suoi simili, venerando allora per la deportazione e prigionia sofferta per amore di patria nel forte di San Nicolò di Sebenico in Dalmazia. Né credasi per caso che il bonorivo confatto con uomini generosi, fosse anche inconscio, rimanesse senza influsso sul tenero e suscettibile animo di un fanciullo qual era Enrico Tazzoli. Che se in alcuni, simili impressioni giovanili si cancellano, ne ha colpa ordinariamente l’educazione, non bastando a questa la natura e la vita, senza l’intervento della saviezza e delle intelligenti cure del patriota. In ciò non furono mai negligenti, né il potevano essere, i genitori del nostro eroe, i quali operarono del loro meglio per instillare in quel tenero ed appassionato cuore il culto verso la patria e l’umanità. Gli avvenimenti del 1821 lo trovarono appena bilustre e le proscrizioni che vi tennero dietro, le quali non lasciarono illesa la nostra Mantova, non poterono a meno di stampare in quell’anima tenera la memoria dell’epoca, tanto più che una tra le illustri vittime, fatte sacre alle immanità austriache, portava il nome della famiglia materna di lui. Giovinetto assistette al tentativo fatto nel 1831 dai congiurati Mantovani per liberare Ciro Menotti. Da questi fatti l’idea nazionale colpì profondamente il suo pensiero e nell’intimo dell’anima giurò di sacrarsi al benessere della patria e de’ suoi simili per modo che anelante alle filantropo annegazioni dello stato sacerdotale vi si dedicò consacrandosi poscia tutto alla patria per modo da tramandare, come supremo ricordo alla gioventù Italiana, la sua vita, glorificazione anticipata della causa ch’egli suggellò col proprio sangue. Il decennio che precorse il 1848 fu per Tazzoli, e per la generazione a cui egli apparteneva, […], l’atrio della vita politica, l’iniziazione dell’avvenire. E già prima del 1848 mostravasi intento a promuover colla parola e coll’opera tutto che può giovare la causa del bene fra gli uomini». (Timoleone Vedovi, Cenni biografici dei Matiri di Belfiore e di S. Giorgio, Mantova, 1872).

 

TEDESCHI Francesco

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61).

Nulla sappiamo di questo Fr؞, mancando notizie certe su di lui, il nome di Francesco Tedeschi non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

TOMMASI Alessandro

(?)

Fratello fondatore della Regia Loggia Arnaldo all’Or؞ di Brescia di RSAA (1863).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 120).

Veneto.

Nulla sappiamo di questo Fr؞, mancando notizie certe su di lui, il nome di Alessandro Tommasi non figura nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

TOSONI (?)

(?)

Fratello Affiliato alla Regia Loggia Arnaldo all’Or؞ di Brescia di RSAA (1890).

(Silvano Danesi, o.c. Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai, 1995, p. 121, 148).

Tesoriere. Firma la tassa d’iscrizione di Cesare Zanardelli, la ricevuta è nelle carte di Ferdinando Zanardelli, fratello del più noto Giuseppe. È tesoriere nel 1891 anche della “Associazione Fraterna” di Brescia della quale fecero parte i FF؞ Cesare Zanardelli e Tullio Bonizzardi (a quel tempo M؞ V؞ della L؞ Arnaldo, quando il Tosoni è Tesoriere). Si presume che tale società fosse l’emanazione profana della L؞ Arnaldo.

Null’altro sappiamo di questo Fr؞, mancando notizie certe su di lui, il solo cognome non permette ricerche certe nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

TRECCANI- CHINELLI Angelo

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61).

Archiv. Gen. Economo e Maestro di Casa della Loggia nel 1809.

Di Brescia.

Notajo in Brescia con casa e studio in contrada Piazzetta del’Erba (Giornale del Dipartimento del Mella, 1815).

Fu Pancrazio di Montechiaro (Almanacco del Mella per l'anno 1811).

Scrissse: Pratica degli atti notariali ricavati da 1810 e Pratica degli Atti Notarili ricavati dal Codice Napoleonico.

Null’altro sappiamo di questo Fr؞, mancando notizie certe su di lui, il nome Angelo Treccani-Chinelli (o Treccano-Chinelli, come riportato da Paolo Guerrini) non permette ricerche certe nei repertori enciclopedici e nelle storie letterarie massoniche.

 

 

TURATI Augusto

(1888 - 1955)

Indicato come appartenente a Piazza del Gesù, ma non esistono documenti in merito (Silvano Danesi, Liberi Muratori in Lombardia ecc., Edimai, 1995, p. 188).

Nacque a Parma il 25 agosto 1888. È stato un politico fascistadirigente sportivo e giornalista italiano di professione, è caporedattore de “La Provincia di Brescia”, quotidiano moderato, di indirizzo liberal-democratico.

Augusto Turati fu tra i principali artefici dell’instaurazione del regime totalitario, che, attraverso la violenza squadrista, distrusse la le condizioni per la vita democratica della città.

È un personaggio chiave che spiega che cosa è stato il regime e come e quando si radicò.

Approfondire il profilo in controluce aiuta a parlare della distruzione delle libertà democratiche e dell’annientamento dell’antifascismo, finanche di stimolare riflessioni, critiche e incoraggiare la conoscenza di questi personaggi che non trovarono incoerenze tra l’appartenenza alla Libera Muratoria e i suoi valori umanitari e tutto ciò che di illiberale e antidemocratico rappresentava il fascismo. Come hanno potuto accordare in loro questa contraddizione: l’inconciliabilità di valori opposti? Forse in Augusto come in altri massoni fascisti non era così radicato, diffuso e solido il pensiero avverso alla tirannide e al dispotismo.

Si suppone che Augusto Turati abbia occultato il corposo carteggio massonico raccolto dal PNF prima della sua nomina a segretario e la replica del gerarca al “fratello” Giovanni Giuriati: “Ho trovato gli uffici del Partito senza qualche cosa che potesse nemmeno lontanamente chiamarsi il principio dell'intenzione di avere un archivio”. Rimane un mistero quale fine esso abbia fatto, in analogia con le 130 casse di documenti e cimeli sottratti al Grande Oriente d'Italia e rinvenute (o fatte trovare?) nel 1929, con tanto di schedario dei 150.000 affiliati.

Bresciano d’adozione. Nato da famiglia con forti tradizioni anticlericali e garibaldine, si trasferì giovanissimo a Brescia. Nel contempo inizia gli studi in legge, portati avanti in maniera discontinua. Attivo interventista prende parte alla prima guerra mondiale con il grado di capitano e viene decorato. Congedato dall'esercito nell'estate del 1919, riprende a lavorare per "La Provincia di Brescia" in qualità di caporedattore.

Èa Brescia, sua città di adozione che Turati entra a far parte del movimento e poi del partito fascista. Rispetto ad altre personalità del regime, Augusto Turati aderisce al movimento fascista relativamente tardi. Nel 1920 aderisce ai fasci di combattimento e, nel 1921, al Partito nazionale fascista.

Nell'ambito dell'organizzazione del partito si dedica all'attività sindacale e diviene poi segretario della federazione bresciana.

Il fascismo non mise subito radici nella città di Brescia. Alla fine del 1919 Alessandro Melchiori, promotore del fascio bresciano, scriveva a Umberto Pasella, segretario generale dei Fasci di combattimento: «I Fasci si trovano in uno stato di disanimazione». E di nuovo, nell’agosto del 1920, alcuni fascisti bresciani scrivevano a Pasella: «Noi ci troviamo nell’assoluta impossibilità di poter continuare a far esistere un fascio a Brescia, che fino ad oggi non è esistito che di nome». A far decollare il movimento nel Bresciano fu il trentenne Augusto Turati.

Quale segretario provinciale, Turati si dimostrò particolarmente intransigente nell'applicazione dei patti agrari fascisti, nei confronti delle organizzazioni sindacali anarco-socialiste, di quelle cattoliche e persino dei latifondisti.

Con il fascismo al governo, Turati organizza la violenza contro popolari e socialisti, che a Brescia continuano ad avere una solida base di consenso. Dopo l'assassinio, da parte dei fascisti, di un imprenditore agricolo, e l'attacco radicale alle leghe bianche, il ras rivendica il diritto, per gli squadristi, di usare la forza contro gli oppositori antifascisti e in generale contro chiunque osi mettere in discussione l'egemonia del partito in campo sindacale e politico.

Nel 1923 il Fascismo dichiarò l’incompatibilità con la Massoneria: « II Gran Consiglio Nazionale del Fascismo, discutendo il tema “Fascismo e Massoneria” posto all'ordine del giorno della seduta del 12 corrente [1923]; considerato che gli ultimi avvenimenti politici e certi atteggiamenti e voti della Massoneria dànno fondato motivo di ritenere che la Massoneria persegue programmi e adotta metodi che sono in contrasto con quelli che ispirano tutta l'attività del Fascismo: invita i fascisti che sono massoni a scegliere tra l'appartenere al Partito Nazionale Fascista o alla Massoneria, poiché non v'è per i fascisti che una sola disciplina, la disciplina del Fascismo; che una sola gerarchia, la gerarchia del Fascismo; che una sola obbedienza, l'obbedienza assoluta, devota e quotidiana al Capo e ai capi del Fascismo ». Turati come tanti altri Massoni fascisti fece la sua scelta d’essere fascista e non essere più Libero Muratore.

L’indomani, l’illustre massone lucano Pietro Faudella parlò pubblicamente di «un atto di ingratitudine verso la massoneria in genere e verso la massoneria milanese in particolare».

Lamento rivelatore di uno stato d’animo tutt’altro che ingiustificato, come di chi assiste sconcertato a una inaspettata involuzione dei fini; la massoneria come “madre nutrice” del funesto movimento fascista, che pensava di poter controllare se non padroneggiare e ne è stata intossicata.

In seguito alla crisi politica determinata dal delitto Matteotti e allo scopo di fronteggiare il "rassismo" che ne era stato il principale responsabile, nel 1926 Mussolini incaricò Turati di sostituire Roberto Farinacci (iniziato alla massoneria nella loggia Quinto Curzio di Cremona) come segretario nazionale del PNF, affidandogli il difficile compito di rendere maggiormente disciplinato il partito, epurando gli elementi più estremisti.

Turati svolse la sua opera moderatrice e moralizzatrice nel partito con estremo rigore e grande determinazione, non sempre riuscendo nell'intento, ma inimicandosi una folta schiera di gerarchi nazionali e locali, primi fra tutti FarinacciCianoDe VecchiGiuntaBalbo e Ricci, che dalle direttive di Turati erano stati fortemente colpiti negli interessi politici ed economici.

Il prestigio e il potere di Turati aumentarono smisuratamente in pochi anni, anche supportati dalla creazione di un apparato di polizia a lui fedele ed esaltati dalla sua abilità oratoria.

Tra Turati e Mussolini non vi erano motivi di timore reciproci, men che meno il Duce poteva averne nei confronti di un uomo politico che si manifestò sempre quale un fedele assertore del fascismo e del suo capo. Vi erano, invece, delle diversità di vedute su punti importanti: il ruolo del Partito Nazionale Fascista, il problema morale, la politica economica per combattere la "grande crisi" e la politica verso i sindacati. Chi temeva Turati erano i vari gerarchi preoccupati che il segretario del partito potesse rafforzarsi troppo nella posizione di vice-duce, così da succedere a Mussolini in caso di una sua prematura scomparsa.

A Turati segretario nazionale viene chiesto di fare in modo che partito rispecchi, in subordine, il nuovo principio di autorità dello stato, spazzando via le velleità di procedure elettive per le cariche interne, impedendo ogni tentativo di sopravvivenza di correnti e, infine, trasformando il partito stesso in una enorme riserva di fascisti alla quale attingere per creare quadri ed esecutori della politica mussoliniana.

Nei quattro anni della direzione turatiana, il partito riesce a penetrare in tutti i gangli della società e delle istituzioni, attraverso la sostituzione del personale del passato con fascisti sicuri e fedeli, dando così fine alla fase iniziale del fascismo.

Sono questi gli anni delle leggi fascistissime e della nascita del tribunale speciale, che emetterà condanne a secoli di carcere e alla fucilazione per gli oppositori del regime; sono gli anni in cui vengono sciolte tutte le organizzazioni giovanili non legate al fascismo, e in cui si epurano le istituzioni statali degli elementi non allineati.

Nel contempo Turati svolse anche attività di dirigente sportivo: già campione di scherma, fu dirigente federale della FIS, poi presidente della FIT, successivamente della FIDAL e infine, dal 1928 al 1930, del CONI. Dal 1929 al 1930 fu presidente della FMSI e nello stesso anno è commissario della FIP. A livello internazionale fu membro del CIO dal 1930 al 1931.

Turati fu anche sostenitore, contro un'opinione prevalente della dirigenza fascista del tempo, di un rilancio della produzione cinematografica italiana, compromessa da una crisi iniziata dopo la guerra; per questo Blasetti chiamerà "Augustus" la casa di produzione fondata per realizzare il suo film d'esordio Sole.

Nell'ottobre del 1929, Farinacci diede inizio a una pesante campagna scandalistica contro Turati, basata sulle equivoche confidenze fattegli dalla maîtresse Paola Marcellino, che gestiva la lussuosa casa d'appuntamenti della quale erano entrambi clienti. Nei primi mesi del 1930 Turati inviò le proprie dimissioni a Mussolini, che le respinse.

Dopo un intero anno di campagna scandalistica, Turati rassegnò nuovamente le dimissioni, questa volta accettate, tornando al giornalismo, prima come inviato del Corriere della Sera e poi come direttore de La Stampa.

L'abbandono del potere lo espose ancor più alle azioni degli avversari che non si placarono e, anzi, vennero rafforzate dagli ex collaboratori come Achille Starace, uno dei quattro vicesegretari del PNF, cui Turati non aveva mai risparmiato critiche per la sua pochezza, che divenne il suo implacabile persecutore.

Nonostante la strenua difesa in suo favore esercitata da Giovanni Agnelli e Aldo Borelli direttamente su Mussolini, Turati fu destituito dalla direzione de La Stampa, arrestato e rinchiuso nel manicomio di sant'Agnese a Roma, per poi essere trasferito in una casa di cura a Ramiola, in provincia di Parma.

Radiato dal partito, nel 1933 venne confinato a Rodi [per un periodo di “rieducazione”] e, dopo un breve soggiorno in Etiopia, rientrò in patria nel 1938.

Abbandonata l'attività politica, si dedicò alla professione di consulente legale. Nonostante si manifestasse contrario all'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale e al costituirsi della Repubblica Sociale Italiana, nel dopoguerra viene processato e condannato.

Amnistiato nel 1946.

Passò all’Or؞ Eterno a Roma27 agosto 1955 all’età di 67 anni.

UBERTI Giovanni

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

Sagrificatore della Loggia nel 1809.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61 e 64).

Di Brescia.

Pretore di Saronno.

Intorno ai due fratelli Uberti cfr. Luzio (Archivio Storico Lombardo, La massoneria sotto il Regno italico, p. 351): «Uberti Uberto, ex-segretario di prefettura, ed avvocato a Brescia, alla cui loggia fu iscritto. Inappuntabile: e pel suo carattere servizievole, amico di tutto il mondo».

Ancora vivente intorno al 1831 (secondo il rapporto Torresani edito dal Luzio nell’Arch. stor. lomb.,1917).

 

 

UBERTI Uberto

(?)              

Fratello originario della Reale Loggia Amalia Augusta (1809).

Secondo Esperto della Loggia nel 1809.

(Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 61 e 64).

Di Brescia.

Avvocato e Segretario di Prefettura a Brescia.

Uberto è il padre dell’infelice poeta repubblicano Giulio Uberti.

«Uberti Giovanni, pretore a Saronno, fu della Loggia di Brescia : s’è passabilmente corretto. Quand'era pretore a S. Colombano presso Lodi, era poco esemplare, come cittadino e come funzionario austriaco» (Luzio, Archivio Storico Lombardo, La massoneria sotto il Regno italico, p. 351).

Ancora vivente intorno al 1831 (secondo il rapporto Torresani edito dal Luzio nell’Arch. stor. lomb.,1917).

 

 

UGONI Camillo

(1784 - 1855)  

Fratello della Reale Loggia Amalia Augusta (?).

Lo cita come Libero Muratore, in sieme al fratello Filippo, il F؞ Silvano Danesi in “Liberi Muratori in Lombardia – La Massoneria lombarda dal ‘700 ad oggi, Edimai, 1995, p.112.

È nell’elenco dei “Federati lombardi” (società segreta concorrente della carboneria e dal programma politico più sfumato), col fratello minore Filippo Ugoni, ma qui non sono citati come massoni (Vedi op. cit. di Paolo Guerrini, I Cospiratori bresciani del ’21, p. 363).

Nacque a Brescia l’8 agosto 1784.

È stato un letterato e patriota italiano.

Figlio di Marcantonio Ugoni, (una delle più antiche e illustri famiglie del Bresciano, saldamente radicate nel territorio) e Caterina Maggi, studiò dapprima a Brescia alla scuola dei Somaschi e poi nel collegio dei Gesuiti di Parma. Tornato a Brescia nel 1806, conobbe l’anno dopo il F؞ massone Ugo Foscolo, col quale strinse un rapporto d’amicizia che durò tutta la vita (Siusa, Archivi di personalità, ad vocem) e che lo accompagnò criticamente nei primi lavori di Camillo e gli servì da modello per poesie, ma anche nella morale e nel far nascere in Camillo il sentimento nazionale unitario. Conobbe anche il letterato classicista Girolamo Federico Borgno e, sua esortazione, tradusse in italiano i “Commentari” di Cesare (che lo rendono un conoscitore del latino e in cui ha scritto anche sonetti ed epigrammi), che dedicò a Napoleone, del quale era acceso sostenitore. L’Ugoni andò espressamente a Parigi a presentare la sua traduzione a Napoleone I nell’occasione della nascita del Re di Roma; nel 1811 Napoleone gli conferì il titolo di barone (Margherita Pietroboni Cancarini, Camillo Ugoni Letterato e patriota bresciano, Ediz. a cura della Regione Lombardia, 1974.).

Proseguì il lavoro di Giovan Battista Corniani di ricostruzione biografica degli scrittori italiani nel Della letteratura italiana nella seconda metà del sec. XVIII pubblicato nel 1820-22, in 3 vol., che stabilì la sua fama di storico letterario.

In seguito, essendo di idee liberali e vicino al gruppo del “Conciliatore”, partecipò ai moti del ‘21. In seguito alle citazioni in giudizio dal giugno 1821 e l’arresto di alcuni amici, tra cui Giacinto Mompiani, decise eludere la minaccia di arresto fuggendo, insieme a Giovita Scalvini e Giovanni Arrivabene, in Svizzera nell’aprile del 1822, poi in Inghilterra e infine in Francia.

Qui divenne collaboratore della Biographie universelle e del quotidiano Le Globe; nel 1824 tradusse in italiano gli Essays on Petrarch che l’amico Ugo Foscolo aveva pubblicato a Londra l’anno precedente. Seguì approssimativamente la Rivoluzione di luglio del 1830 a Parigi, che gli valse delle critiche, mentre quella dell’Italia centrale con grande interesse.

Nel 1838, a seguito di un’amnistia, poté tornare a Brescia e si concentrò nuovamente sulla letterature.  Fece amicizia con Manzoni e si astenne da ogni impegno politico; riprese gli studi delle biografie di letterati del passato con la seconda parte Della letteratura italiana nella seconda metà del secolo XVIII, che fu pubblicata postuma nel 1856 dal fratello Filippo.

L’indentificazione di Camillo e Filippo Ugoni è basata sul dipinto raffigurante i due fratelli, di L. Basiletti, presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.

Passò all’Or؞ Eterno a Pontevico12 febbraio 1855 all’età di 70 anni.

UGONI Filippo

(1794 – 1877).

Fratello della Reale Loggia Amalia Augusta (?).

Lo cita come Libero Muratore, in sieme al fratello Camillo, il F؞ Silvano Danesi in “Liberi Muratori in Lombardia – La Massoneria lombarda dal ‘700 ad oggi, Edimai, 1995, p.112.

Nacque a Brescia l’11.11.1794.

Patriota. Massone e Carbonaro.

Fu un protagonista dei primi tentativi rivoluzionari in Italia, esule in Europa per quasi un ventennio, legato da amicizia con Giuseppe Mazzini. Rientrato a Brescia per la stagione risorgimentale, fu attivo nelle Dieci Giornate e membro del Governo provvisorio nel 1859; amico di Giuseppe Zanardelli, sedette nel primo parlamento del Regno d’Italia e soffrì il disincanto per la nuova politica. Ha lasciato un ricco carteggio, quasi totalmente inedito, che ci restituisce in piena luce una figura di prestigio.

Figlio di Marcantonio e di Caterina Maggi. Fratello di Camillo (vedi).

Carbonaro, dopo il fallimento dei moti del 1821 fuggì all’estero. Ebbe stretta amicizia a Ginevra con Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1822), con cui intrattenne un carteggio, viaggiò in Francia, Inghilterra e Belgio, con frequenti soggiorni a Zurigo e, nel 1824 e dal 1831, a Lugano. Qui collaborò con l’editore Giuseppe Ruggia, per cui curò opere di Sismondi e Giuseppe Pecchio. Graziato nel 1838, rimpatriò da Zurigo nel 1840.

I dieci anni che separano anagraficamente i fratelli e i percorsi educativi aiutano a comprenderne le diverse personalità: Camillo, un letterato di impostazione classica cautamente attratto dal cambiamento culturale dell’avanguardia romantica e liberale lombarda, ma caratterialmente lontano dall’impegno militante in prima persona e da scelte estreme o sovversive; Filippo, assimilabile ai ‘figli del secolo’, i giovani nati all’inizio dell’Ottocento, pienamente inserito nella mobilitazione risorgimentale fino a sperimentare, da deputato, la vita politico-istituzionale del Parlamento subalpino e del primo Parlamento italiano. Il bel ritratto attribuito all’amico pittore Luigi Basiletti, databile intorno al 1812 e conservato nei Musei civici di Santa Giulia a Brescia, affianca i volti dei due fratelli rivelando l’indole più meditativa del primo e lo sguardo più diretto, quasi sfidante, del secondo: una sintesi visiva dei diversi modi in cui uomini della loro estrazione sociale avrebbero potuto vivere il tempo postnapoleonico e le sfide culturali e politiche dell’Ottocento italiano.

Filippo frequentò, come Camillo ma per minor tempo, il collegio dei nobili di Parma, retto dagli ex padri gesuiti –, passando poi al vivace ambiente dell’Università di Pavia: «educato nel modo meccanico del collegio» (così Filippo cit. in Petroboni Cancarini, 1974, p. 47), il fratello Camillo gli sembrò sempre marcato nella sua personalità da quella prima esperienza educativa.

Le lettere, che Camillo scrisse negli anni l’amico e F؞ Ugo Foscolo, restituiscono il costante interesse per gli sudi e le letture dei fratelli minori, Filippo ma anche Marianna. Le tracce lasciate da Filippo tra la caduta del Regno d’Italia napoleonico e l’avvio della Restaurazione sono minime, e si ritrovano in un viaggio in Svizzera nell’estate del 1819 che i fratelli Ugoni compioni in compagnia di Giovanni Arrivabene e di Michele Chiaranda che fece loro conoscere il metodo di mutuo insegnamento lancasteriano, lo stesso che stavano diffondendo a Milano Federico Confalonieri e Giacinto Mompiani nel quadro della sfida culturale lanciata all’Austria anche attraverso le pagine del Conciliatore. Filippo e Arrivabene si impegnarono direttamente nella creazione e direzione di due scuole (di ispirazione massonica, vedi Silvano dane in Liberi Muratori in Lombardia, ecc, Edimai 1995, p. 112), a Pontevico e a Mantova, esponendosi all’attenzione delle autorità di polizia e sotto il cui occhio vigile Filippo cadde subito.

Vista l’indole dei fratelli, è probabile che Camillo sia stato affiliato anche ai Federati lombardi, società segreta concorrente della carboneria e dal programma politico più sfumato, e Filippo fu invece attivo nella penetrazione della società a Brescia e dintorni e ritenuto, nelle fonti di polizia e processuali, l’artefice e il capo della rete clandestina in città su impulso dei milanesi Confalonieri e Pietro Borsieri. Entrò nelle mire della polizia insieme al fratello, sebbene Camillo fosse più defilato: il 24 maggio 1821, nell’imminenza di una perquisizione domiciliare, Filippo riuscì a fuggire: il tenore delle lettere sequestrate nell’abitazione portò ai ripetuti interrogatori di Camillo a Milano tra fine maggio e fine giugno, e ancora in settembre. La notizia dell’arresto dell’amico Mompiani nell’aprile del 1822 lo convinse infine a lasciare Brescia e, attraverso la Val Camonica e la Valtellina, passare in Svizzera, prima a Berna e a Zurigo, quindi a Ginevra, dove sperava nell’appoggio delle amicizie strette nell’estate del 1819.

Filippo fu condannato a morte in contumacia per alto tradimento, Camillo, oggetto di inquisizione speciale per sospetto di alto tradimento, iniziò anche lui la fase dell’esilio, nel quale i frequenti e numerosi spostamenti sono ricostruibili grazie alle sue lettere a Marianna: nell’ottobre Filippo si recò in Scozia, poi passò in Galles, mentre Camillo raggiunse Londra nel 1823 e quindi l’Irlanda. Coltivando a distanza un dialogo con esponenti della cultura italiana, tra i quali l’editore e F؞ di Loggia Niccolò Bettoni e Giovan Pietro Vieusseux.

Il diverso grado di coinvolgimento dei due fratelli nell’entusiasmo per la rivoluzione parigina di luglio emerge da una lettera di Filippo: «...Impiccati, mio caro fratello. Io ho tutto veduto, sono stato in mezzo alle schiopetate [sic], e tu non c’eri» (lettera del 31 luglio 1830, ibid., p. 189). Alla fine di quell’anno Filippo fece base a Ginevra, entrando in contatto con il circolo di Jean-Charles Léonard Sismonde de Sismondi e poi con gli ambienti mazziniani che preparavano una spedizione in Savoia. Nel frattempo, la speranza di Camillo di tornare in Italia era svanita: «Mia cara sorella, sapete che è deciso definitivamente che non tornerò più» (lettera del 1° settembre 1825, ibid., p. 130).

E infatti le carte di polizia e i pareri presentati all’imperatore tramite il Senato Lombardo-Veneto restituiscono un atteggiamento di decisa chiusura nei confronti delle suppliche delle sorelle Marianna, Caterina e Lucia, e di Camillo stesso: le prime, per ottenere mitigazioni del sequestro delle proprietà di famiglia; il secondo, nel novembre del 1832, al governatore Franz Hartig, per avere un passaporto e rimpatriare, criticato per questo da Filippo: «bada bene di non andare a sacrificare la vita per salvare un po’ di terre, pensa a chi è ancora in prigione, a chi vi ha perduto la vita, la salute, una gamba» (lettera da Interlaken del 6 agosto 1832, ibid., p. 190).

Gli Ugoni restavano assenti illegali ritenuti non meritevoli di alcuna forma di clemenza.

Con il solo soccorso economico dello zio Francesco, le esistenze dei due fratelli si erano spesso incrociate nei luoghi dell’esilio, ma avevano preso strade diverse: di ripiegamento, quella di Camillo, di attivismo cospirativo, quella di Filippo, che il fratello descriveva a Marianna come un animo inquieto e malcontento, sempre in cerca di cose nuove (lettera del 29 ottobre 1832, ibid., pp. 196 s.). Nel 1836 Camillo diede alle stampe da Baudry a Parigi un’opera significativa per il milieu dell’esilio italiano, la Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, esule del 1821, morto nel 1835 a Brighton, amico dei due fratelli: ma invece che una ricostruzione della vita del patriota, l’opera si risolse in una confutazione della biografia di Foscolo scritta da Pecchio, contribuendo tuttavia a risvegliare l’interesse politico degli esuli della prima ondata – tra cui Borsieri a Filadelfia ̶– e degli amici della causa italiana.

Morto lo zio di colera nell’agosto del 1836, le due esistenze si incrociarono e divaricarono ancora una volta: Filippo si stabilì a Zurigo, poi a Parigi, mentre da qui Camillo si apprestava a partire per approfittare dell’amnistia concessa dall’Austria ai profughi politici illegalmente assenti e rientrò a Brescia nel dicembre del 1838, dopo oltre sedici anni di assenza.

Le lettere del gennaio del 1839 restituiscono un Camillo frastornato, assillato dalle difficoltà di rientrare in possesso dell’eredità lasciata dallo zio e, al contempo, curatore dei beni del fratello: la sua ricerca di quiete e la condotta di suddito ligio gli attirarono così le critiche dall’ambiente dell’esilio. Filippo restava invece sulla lista nera dell’Austria: definito un «membro infetto» della società, non poteva essere riammesso in patria, tanto più che il suo esilio non poteva «paragonarsi alla pena che altri di lui complici hanno dovuto espiare sullo Spielberg», mentre un atto di clemenza nei suoi confronti sarebbe stato «un esempio funesto per l’avvenire» (parere sulla richiesta di grazia, cit. in Processi politici, 1976, pp. 495 s.).

Le condizioni per il suo rientro maturarono qualche anno più tardi: nel 1841 lo si trova a Brescia, autore di una supplica al viceré per ottenere l’illimitata amministrazione dei suoi beni, supplica respinta dallo stesso Metternich (pp. 554 s.).

Entrato già nel 1842 in corrispondenza con Niccolò Tommaseo, Filippo avrebbe coltivato con l’intellettuale e patriota dalmata un lungo rapporto, testimoniato anche dal lavoro del bresciano per realizzare la biografia di Giovita Scalvini.

La rivoluzione del 1848-49 costituì un’ulteriore prova della diversa indole dei fratelli: Camillo, ritirato nella sua villa di Campazzo, «non prese nessuna parte a quegli avvenimenti» (così Filippo cit. in Petroboni Cancarini, 1974, p. 220), «così come non aveva preveduto il quarantotto, così nemmeno sognò gli avvenimenti del quarantanove» (ibid.), mentre Filippo fu addirittura membro del governo provvisorio bresciano formatosi dopo la liberazione dagli austriaci e pubblicò anche numerosi pamphlet nei mesi più caldi della resistenza bresciana. Ci resta invece una lettera di Camillo del 4 dicembre 1848 alla sorella in cui si doleva per quella che definiva la sciagura di Roma e la fuga del papa (cit. in Petroboni Cancarini, 1978, IV, p. 124). La consuetudine con i Manzoni caratterizzò gli ultimi anni di vita di Camillo, sempre dedito agli studi e attivo mediatore anche per Manzoni presso l’editore Baudry di Parigi. Camillo passò all’Oriete Eterno nella villa di Pontevico il 12 febbraio 1855.

Filippo, di nuovo esule con il 1849, negli anni Cinquanta contribuì per le vicende bresciane all’Archivio triennale delle cose d’Italia organizzato da Carlo Cattaneo. Partecipò alla VII legislatura del Parlamento subalpino, eletto nelle prime elezioni libere cui parteciparono i bresciani, il 20 novembre 1859.

Eletto anche nelle elezioni del 1861, con ristrettissima base elettorale, nel collegio di Verolanuova, riportando centosessantatré voti contro i cinquantanove di Stefano Jacini, dette poi le dimissioni e fu sostituito da Giovanni Battista Giustiniani.

Nel corso dell’attività di deputato numerosi furono i suoi interventi, giudicati sempre ragionevoli e ragionati, soprattutto nella discussione di progetti di legge: appoggiò con il suo voto il ministero Rattazzi, fece proposte e interpellanze sulla ferrovia da Brescia a Cremona, con sensibilità evidente per il territorio da lui rappresentato e meglio conosciuto. Nel corso degli anni Settanta fu presidente dell’Ateneo di Brescia e ne promosse l’attività culturale, affiancandovi iniziative filantropiche.

Quando anche lui morì a Brescia nel 1877, fu subito ricordato con partecipati elogi funebri che ne ripercorsero l’attività di patriota che si era speso per la sua città, di lì in poi associato al fratello nell’espressione ‘gli Ugoni’ come campioni dell’esilio italiano nel Risorgimento. Le abbondanti fonti manoscritte e a stampa consentono oggi di sottolineare anche l’azione degli Ugoni come autentici mediatori culturali nell’Europa dell’Ottocento.

Passò all’Or؞ Eterno a brescia il 12.3.1877 all’età di 82 anni.

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